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Un dialogo immaginario fra l’uomo ed il destino, interpretato dalla sua forma più tragica ed ineluttabile: la catastrofe, la fine di ogni cosa.

di Annibale Galliani

Inverno, inizio della pandemia.

Impara a vivere, uomo. Sono la catastrofe. Ti attendo. Perché? Sono cose che succedono, dovresti saperlo. Un passaggio inaspettato il mio, lo so, ma vengo in pace, per proporti la riflessione. Su cosa? Sugli errori reiterati all’infinito. Ok, sei troppo orgoglioso per ammettere i tuoi sbagli, ma ci proverò. La catastrofe raramente manca il suo bersaglio, non lo sai? Cosa scrivi sui libri? Come ti tieni informato? Non credo le tue fonti siano sempre pienamente attendibili. Ti porterò dove potrai capire chi sei veramente: nelle ceneri delle storie senza storia che sei in grado di generare. Sono roba tua, le produci non rendendotene nemmeno conto. Ne sai una più del diavolo, ma non della catastrofe.

Mi guardi male? Pensi già a come farmi fuori. Non cambi mai. Non sono io il tuo nemico: sei tu il tuo nemico. È brutto sentirselo dire, me ne rendo conto, ma io ho una buona controindicazione: sono sincera. Cosa desiderare di più da un interlocutore? Tu lo sei? Ho perso il conto delle bugie che dici, ma so bene cosa fai. La droga, la mafia, l’inquinamento, gli omicidi, gli stupri, di ogni genere, l’abuso di potere, l’invidia. Credi di non esserti già guadagnato l’autoestinzione?

Non disperare. Sì, piangi un po’, scavati dentro, impreca al cielo contro te stesso. Sali pure sui balconi a stonare, ma non disperare. Ricordati che tocca a te scegliere, il futuro non è nelle mie mani. Sono di passaggio, io. Anche tu? Non saprei. Quando passo a trovarti, non avvisando scortesemente, ti fiondi sotto una glaciale doccia di divinità, rasentando l’epica. Sì, uomo, diventi capace di miracoli, utili per il mio vangelo apocrifo che scrivo sul tuo conto. Sei il viaggio dell’eroe che avrei voluto vivere. Sei un best-seller vivente. Sei il mio melodramma preferito e pensa che io odio l’opera. Preferisco il metal.

Ti amo, uomo. Ecco, l’ho detto. Avevo un macigno sulla bocca. Prima o poi dovevo fare outing, sono anch’io una figura celebre, determinante per il pianeta. Senza di me, non ti saresti mai evoluto, abbandonando il sogno della tecnologia. E poi, non avresti gonfiato il petto, guardandoti indietro: il rinascimento non sarebbe stato un granché, perché non sarebbe esistito il medioevo. No, le guerre sono opera tua, io mi concentro sui fenomeni naturali, ho il mio specifico, non prendo mai meriti altrui.

Eh sì, mio caro, le catastrofi amano gli uomini. La motivazione? È facile: sono gli unici a tenerci testa. I dinosauri, gli animali, le piante, le rocce, le macchine, non possono nulla contro la nostra scaltra furia. Forse, adesso che ci penso, si salva solo il mare, ma non ha il tuo stesso spirito di competizione. Tu sei un’altra cosa, un malato cronico di sfida. Sei il mio stratega, uomo. Per questo ti amo. Per questo ti eliminerò: sarai il mio più acuto godimento. Intanto, ti voglio aiutare. Scusami, se ti metto in imbarazzo, ma non posso farne a meno. Spero capirai. Vieni con me, dammi la mano. Quattro passi sulle ceneri ci faranno bene…

Estate, fine della pandemia.

Spalanco la gabbia fuori di me. L’estate bisbiglia ai miei pensieri e riavvolge il nastro dell’incuria. Riuscirò ad aprire la gabbia dentro di me? Non sono io a chiedermelo. È la natura, in ogni sua forma. Genere umano compreso. Umano, non genere massa. Non faccio mai quello che mi consigliano i migliori. Scelgo i peggiori, per avere garantita l’opportunità di sentirmi superiore in qualsiasi circostanza. L’arbitrarietà è una mia invenzione.

L’harakiri della gabbia è droga: la mia. Sono io la gabbia. È semplice arrivarci: non è un caso abbia voluto ferirmi nei secoli con pugnali totalitari, schegge di follia, clave per la sottomissione. Alla fine, vinco io.

Ho stroncato l’ennesima catastrofe, un’emergenza globalizzata: stappo lo champagne più mielato, lo verso sulla primavera, che si era riappropriata abilmente, insieme a orde di fauna irredenta, degli spazi accesi, per poco spenti. Non mi fregate.

Odio il buio. Mi fanno paura le distanze. Non posso stare solo. Devo aumentare la pressione elettrica. Tecnica. Tecnica. Tecnica. Più connessione. Più condivisione. Meno privacy. M’ammazza di noia. Il mio organismo è digitale, non si torna indietro. Le sbarre, se voglio, le piego con un dito. Ma adesso non mi va. Semmai più tardi. Sono stanco. La società che ho creato mi distrugge. È peggio del lunedì mattina.

«Impara a vivere», disse il nemico.

Che consiglio strampalato: se non so vivere io? Guarda i ritmi della produzione, la magnificenza delle megalopoli, i palazzi pubblici di puro lusso, le ville private di purissimo lusso, i bagni esclusivi di purissimissimo lusso. Con uno di quelli ci sfami migliaia di persone che muoiono di fame. Il lusso costa. Nemico, prova a imitarmi, se ci riesci. L’uomo è inimitabile. Sono l’entità più intelligente da un botto di secoli.

«Sei troppo orgoglioso per ammettere i tuoi sbagli», rincarava.

Non rispondo alle provocazioni: sono un animale politico, il poker dialettico l’ho inventato io. Ogni nemico sul mio cammino fa la fine degli Achei al passaggio di Achille. Io sono l’autentico Achille.

«Non sono io il tuo nemico: sei tu il tuo nemico», questa è bella, l’avevo dimenticata.

E se fosse vero? Se fossi davvero io il mio nemico?

Stronzate. Voglio bene a me stesso. Non c’è amico migliore di me.

«La droga, la mafia, l’inquinamento, gli omicidi, gli stupri, di ogni genere, l’abuso di potere, l’invidia. Credi di non esserti già guadagnato l’autoestinzione?», che ciarlatana.

Io sono qui. Io so benissimo cosa fare. Preparatevi, vi farò letteralmente divertire nei prossimi decenni. Guai a sfidare l’uomo. Sono un killer. Sono un genio. Sono un salvatore. A voi la scelta. Quando pensate a me, ricordate: contro la catastrofe ho dimostrato di poter compiere miracoli. Ebbene, la catastrofe ha stabilito che sono io il vostro reale nemico. L’unico.

Buona fortuna, a chi avrà il fegato di sfidarmi. Sfidandosi una volta per tutte.

Sorgente: Dialogo tra l’uomo e la catastrofe | L’ Intellettuale Dissidente

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