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In passato si aveva la percezione del contadino, del suo mestiere e della sua identità. Oggi invece ce ne si ricorda soltanto quando si tratta di stabilire se impiegare nei campi i beneficiari di reddito di cittadinanza

di Fulvio Abbate

C’era una volta l’agricoltura, di più, se ne aveva percezione.

Giusto, c’è stato un tempo in cui proprio di quel mondo si aveva tutti contezza, ora perché molti nostri antenati erano giunti infine nel borgo proprio dal contado, diventando infine, grazie, metti, allo zi’ arciprete o magari all’onorevole amico, funzionari del parastato o del Palazzo regionale.

Ora perché bastava guardare appena lo scorrere della televisione ancora in bianco e nero per imbattersi nell’esistenza di una rubrica d’informazione pomeridiana, piazzata, se non rammento male, all’incirca all’ora del Vespro, il medesimo raffigurato dal celebre cattolicissimo quadro d’arcadia contadina – “L’Angelus” di Millet – intitolata addirittura “A come agricoltura”, la cui sigla mostrava appunto il seminatore che, avanzando tra i solchi, lascia andare i semi del raccolto che sarà, una trasmissione che aveva in verità sostituito “La Tv degli agricoltori, sempre dedicata al mondo agricolo e ai suoi commerci.

Leggo che «destinatari principali della trasmissione erano i commercianti e operatori agricoli, ma anche i coltivatori diretti, che insieme agli esperti del settore davano luogo a delle vere e proprie ‘tribune agricole’».

Alcuni di loro, reduci dalle fiere del bestiame, vittime della bomba, saranno omaggiati anche nei versi di Pasolini, “Patmos” – «In piena epoca industriale, coltiviamo dunque la terra con le nostre mani, e un solo lavorante. Andremo dunque presto a vendere le nostre ultime 14 vacche ai Vicini nel 1970 avanti Cristo» – dedicati alla strage di piazza Fontana.

Leggo ancora: «Da una costola della trasmissione nacque, nel 1981, ‘Linea verde’ trasmissione omologa che tratta le medesime tematiche». In verità, il volto del contadino sembra essere svanito in queste ultime rubriche per lasciare posto a una figura ulteriore.

Perfino la filatelia mostrava attenzione al mondo contadino, su tutte sia citata la serie, de “L’Italia al lavoro”, ora mi direte che si tratta di cose degli anni ‘50, i primissimi, certo, ma il punto è la percezione dell’esistenza stessa della terra. È verità che da un certo punto della nostra storia in poi, nonostante le bandiere gialle della Coldiretti, l’antica “bonomiana”, a mostrarsi nei mercati cittadini domenicali, la percezione condivisa dell’agricoltura è come svanita.

Certo, le fabbriche, la manodopera necessaria, i figli dei braccianti e i braccianti stessi finiti a fare gli operai a montare, metti, auto o lavatrici; nel cielo, la formula del Premio Nobel per la chimica Giulio Natta: non più patate, ma propilene, non più filari di vitigni semmai una catena di montaggio, altro tipo di viti.

Poi, chissà come, sarà stata la fine degli anni ’70, sembrò che “fare il contadino” fosse tornato edificante, così qualche reduce dalle barricate appena sgomberate, ancora addosso gli abiti arancioni di colui che un giorno si sarebbe chiamato Osho (mentre allora era ancora per tutti Bagwan) provò a trasformare un’antica “comune”, già podere di famiglia, in campo da coltivazione, poco importa se di kiwi o d’altri frutti all’epoca ancora esotici, ne nacque perfino l’idea dell’agriturismo, quasi che la terra, l’immagine dell’aratro, degli armenti, con l’intero corredo pittorico ottocentesco accluso, si fosse trasformato, trasferito in una nuova attività anche un po’, come dire, alla moda, da servizio patinato, la camicia di flanella a quadrettoni, la barba cardata su sfondo di vigne.

I bambini venuti al mondo nelle città, probabilmente, pensano che i frutti nascano dentro le cassette sui banchi del verduraio o piuttosto direttamente al supermercato. Hanno smesso di esistere anche i cine giornali in cui, tra una intervista a Maria Grazia Buccella e all’inventore dell’auto anfibia, improvvisamente appariva il ministro socialdemocratico Roberto Tremelloni a inaugurare una fiera campionaria di attrezzi agricoli, tutti lì emozionati al momento del taglio del nastro.

Chi ha più visto un trattore, o ancora, chi non ha percepito come epos lontano, nei giorni scorsi, rivedendolo in televisione, il racconto di “Novecento” di Bernardo Bertolucci nel paesaggio dell’Emilia contadina?

In assenza della questione che si è posta in questi giorni di pandemia, esatto, su chi dovrebbe sostituire la manodopera schiavizzata degli immigrati per la raccolta stagionale dei pomodori e d’ogni altro frutto della terra, o la potatura, non avremmo davvero percezione della persistenza del mondo contadino.

Tra le parole della ministra Teresa Bellanova e gli altri attori in campo, alla fine l’intesa sulla regolarizzazione dei lavoratori stranieri è che si vada verso una proroga di tre mesi per chi abbia un contratto scaduto da lavoratore stagionale. L’accordo riguarda braccianti, colf, badanti e babysitter immigrati e italiani che oggi lavorano in nero.

Ribatte Salvini: «È criminogena la sola idea di regolarizzare centinaia di migranti. Un conto diverso sarebbe prorogare i permessi scaduti di qualche mese ma una sanatoria indiscriminata sarebbe devastante».

Resta che pochi avrebbero fatto caso all’esistenza della agricoltura, del contadino, senza il suggerimento di impiegare nei campi i beneficiari di reddito di cittadinanza, un po’ come quando qualcuno ipotizza il ritorno del servizio militare temporaneo obbligatorio per tutti.

Sembrò improvvisamente che molti, ignari ormai d’ogni simbolo del lavoro, tornando a osservare una falce e martello ripresero a comprendere che il martello sta all’operaio così come la falce sta, appunto, al contadino, lo stesso cui ancora adesso, poco importa se immigrato o semplice disoccupato, sarebbe opportuno non far sapere com’è buono il formaggio…

Sorgente: Un tempo l’agricoltura era rispettata, ora è diventata sinonimo di migranti e scansafatiche – Linkiesta.it

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