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Mirco Nacoti, anestesista e rianimatore al papa Giovanni XXIII di Bergamo. Con un pugno di colleghi ha pubblicato sul sito del New England Journal of Medicine un documento drammatico che ha fatto il giro del mondo, portando alla ribalta la crisi sanitaria della Lombardia. Oggi dice: «L’ospedale ha centralizzato tutto. Il paziente arrivava con i parenti e così il contagio si propagava. Ai medici di base mancano mascherine e camici. Non è un’accusa, è la realtà»

Andrea Capocci

Mirco Nacoti è anestesista e rianimatore all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’epicentro più acuto dell’epidemia in Italia, e forse in Europa. Nel pieno della bufera, con un pugno di colleghi ha pubblicato sul sito del New England Journal of Medicine un documento drammatico che ha fatto il giro del mondo, portando alla ribalta la crisi sanitaria della Lombardia. Diversi politici e dirigenti in regione non hanno gradito e invece di trarre una lezione dall’esperienza descritta hanno pensato piuttosto a difendersi. Su Nacoti sono piovute critiche e pressioni dall’alto, di cui non c’era bisogno in questo momento, e si è persa un’occasione per correggere gli errori fatti. «Chi ha letto tutto l’articolo si è reso conto che non era una critica all’ospedale ma erano indicazioni per provare a evitare il disastro bergamasco», racconta Nacoti. «Non a caso, quell’articolo era firmato anche da ricercatori della Pennsylvania, della Costa D’Avorio, persino da un operatore di Medici Senza Frontiere».

Oggi le cose vanno meglio, come dicono i numeri della Protezione Civile?

Non c’è più quella situazione in cui i pazienti arrivavano e non si sapeva dove sistemarli. Ma i numeri non raccontano la realtà. L’unico dato attendibile è quello dei comuni e da quello si può capire quanti sono i contagiati. Nella migliore delle ipotesi, nel bergamasco sono 250mila, cioè un quarto della popolazione. Nella peggiore sono 5-600mila. Invece i dati ufficiali dicono che in Italia ci sono 150mila contagiati.

Avete imparato qualcosa sui trattamenti più efficaci contro il Covid?

Ciò che conta davvero è capire il prima possibile quali pazienti si stanno aggravando per intervenire con la ventilazione, anche a casa, prima che arrivino devastati in ospedale. Clorochina, antivirali, anticorpi monoclonali per il momento sono solo esperimenti, non fanno la differenza. Quando c’è confusione e non c’è un approccio metodologico standardizzato, è impossibile distinguere l’effetto del trattamento dall’evoluzione della malattia. Farà arrabbiare qualcuno, ma è la realtà.

Avete scritto che dalla medicina basata sul paziente si dovrebbe passare a una medicina basata sulla comunità. Che significa?

In Lombardia e non solo, negli ultimi anni ci si è concentrati sulla cura della malattia nella singola persona e si è trascurata la comunità, l’assistenza domiciliare che evita l’ospedalizzazione. Durante l’epidemia è diventato un boomerang. L’epidemia non si combatte aumentando i posti di terapia intensiva, e lo dico qui a Bergamo dov’è stato fatto uno sforzo straordinario. Ma l’elemento centrale è il contenimento. Se non contieni il contagio, non bastano tutti i posti di terapia intensiva del mondo. I primi tempi dell’epidemia i pronto soccorsi hanno continuato a funzionare come prima. Il paziente arrivava in pronto soccorso con i parenti, che stazionavano lì e in questo modo il contagio si propagava. Il virus va dove lo porta l’uomo.

Per l’assistenza domiciliare servono servizi sul territorio. Ci sono?

L’ospedale ha centralizzato molto. Si tende a curare la patologia e non si prende in carico la comunità. Bisognerebbe fornire protezioni ai medici di base, invece mancano mascherine, camici, calzari. E si potrebbe potenziare la telemedicina. Sarebbe importante, per esempio, rilevare presto i livelli di ossigeno troppo bassi nei pazienti perché molti si potrebbero curare a casa. Un saturimetro collegato a una app non sarebbe una cosa complicata, esiste già, e rappresenterebbe un elemento diagnostico fondamentale.

La Società dei rianimatori ha scritto un documento per fornire criteri per decidere chi curare e chi no, quando le risorse sanitarie non bastano per tutti. Avete dovuto applicarlo?

Quel documento è stato applicato in tanti modi. Per chi ha dovuto applicarlo da solo è stato devastante. Noi abbiamo cercato di applicarlo in modo collegiale, condividendo le decisioni con medici e infermieri. Il problema principale è non dover fare quelle scelte da solo.

Quindi il problema si è posto davvero?

Il problema si è posto tantissimo. Molta gente, nel periodo peggiore, non è stata portata in ospedale perché non c’era posto. Non si è riusciti a tenere il passo del contagio con le terapie intensive, nonostante uno sforzo sovrumano. Per quello è importante conoscere le vere dimensioni del contagio. I cinesi ci avevano avvertito che il 5% dei contagiati avrebbero avuto bisogno di terapia intensiva, e ci si è concentrati su quelli. Ma si è dimenticato che quando la base dei contagiati aumenta esponenzialmente, e non lo fermi, anche quel 5% diventa un numero insostenibile. Conoscere il vero numero dei contagiati è fondamentale, altrimenti non riesci a progettare e programmare la risposta, e vivi alla giornata. È una crisi umanitaria devastante. Nelle case c’è la disperazione. Le altre patologie sono state dimenticate. Tra i morti registrati dall’Istat ci saranno anche tante persone che non si sono riuscite a curare. Siamo in una situazione di precarietà che non abbiamo mai vissuto. Le cure che potevamo mettere a disposizione un mese e mezzo fa ora non sono più possibili. Il personale sanitario è devastato, fisicamente e psicologicamente. In un paese povero questa precarietà è già conosciuta. Al momento, gli unici esperti di crisi umanitarie e epidemie sono le Ong. Dovrebbero stare anche loro nei tavoli che decidono. Sono loro a sapere quali errori non fare e a lavorare in condizioni difficili.
È importante che ci siano tavoli in cui lavorino insieme tutti gli attori: ospedali, amministrazioni, terzo settore, imprese. Per anni i paesi ricchi hanno finanziato le Ong perché lavorassero in paesi a basse risorse. Ora dobbiamo coinvolgerle qui. Solo mettendosi nell’ottica che questa situazione andrà avanti per almeno sei mesi potremo mettere in campo azioni efficaci. L’epidemia non ti concede di vivere alla giornata, e di imparare dagli errori. Ogni errore che fai lo paghi duramente, perché diventa nuovo contagio.

Sorgente: «Una regione senza metodo né cura della comunità. Il personale è devastato» | il manifesto

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