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Effetto Coronavirus, prezzi stracciati ma la produzione non cala. La partita a scacchi sui tagli alla produzione, a rischio 50 milioni di posti di lavoro. Tabarelli (Nomisma) all’Huffpost: “Anche gli Usa stavolta devono fare la loro parte”

By Claudio Paudice

Mercoledì scorso Whiting Petroleum ha dichiarato bancarotta, il suo titolo a Wall Street è crollato del 44%. La società petrolifera attiva nella regione Bakken in Nord Dakota, ricorrendo alla ristrutturazione prevista dal Chapter 11, non ha chiuso battenti né pozzi per ora, ma ha tuttavia acceso la prima spia sulle dirompenti conseguenze dell’epidemia sul mercato dell’oro nero. E su chi, in questo momento, ha più da perdere negli equilibri commerciali e geopolitici: Donald Trump.

Whiting è il primo produttore di shale oil a dover ricorrere alla legge fallimentare Usa a causa del Coronavirus ma gli analisti sono concordi sul fatto che a breve altre imprese potrebbero portare i libri in tribunale, ad esempio l’indipendente Callon Petroleum di Houston. L’infarto prolungato dell’economia mondiale a causa del lockdown che a macchia d’olio si sta estendendo ai Paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, ha causato il più rapido collasso del mercato del greggio della storia. Il Wti pochi giorni fa è sceso sotto la soglia dei 20 dollari, il Brent ha toccato i 23 dollari, prezzi così non si vedevano dal 2002: il primo trimestre del 2020 ha visto il prezzo del greggio cadere del 66%. Il motivo è di facile intuizione: aerei a terra, navi ferme nei porti, autostrade deserte, in pratica il settore dei trasporti che rappresenta circa il 50% della domanda di petrolio (benzina, cherosene) è inchiodato, in molti Paesi le filiere produttive stanno lentamente entrando in una fase di standby da cui non si sa quando si uscirà e la metà della popolazione mondiale è in quarantena. La richiesta di greggio è quindi crollata di circa 20-25 milioni di barili al giorno (bpg), secondo una forchetta di diverse stime.

Dietro il gioco della domanda e dell’offerta si muovono gli interessi delle grandi potenze produttrici: gli Stati Uniti, la Russia e l’Arabia Saudita. Il prezzo del greggio ha accentuato il suo calo lo scorso 6 marzo, quando è fallito il negoziato tra Russia e i membri dell’Opec sui tagli alla produzione. In un contesto che ha visto e previsto il crollo della domanda, i principali produttori non hanno diminuito l’offerta e anzi l’hanno incrementata. Perché se la domanda collassa, la produzione non cala? Dietro il comportamento apparentemente irrazionale si cela la guerra per le quote di mercato.

Le scorte Usa nella scorsa settimana sono cresciute di 13,8 milioni di barili, rispetto ai 4,5 milioni attesi dagli analisti. Davanti alle coste dell’Arabia Saudita c’è un gran via vai di petroliere che trasportano greggio da un sito di stoccaggio all’altro o in Egitto. Secondo Jason Bordoff, direttore del Center on Global Energy Policy presso la Columbia University ed ex consigliere per l’energia di Barack Obama, a breve non si saprà dove mettere tutto il greggio in eccesso, “semplicemente non esiste un posto dove metterlo quando nessuno ne ha bisogno”. Per la società londinese IHS Markit, di questo passo prima dell’estate tutti i siti saranno saturi. Eppure, al momento non c’è nessuna apertura ufficiale su un taglio concordato della produzione. Anche perché lo stoccaggio risulta ancora redditizio, con il mercato dei futures entrato da tempo in territorio contango. Vuol dire che i profitti sono assicurati al lordo dei costi di immagazzinaggio, c’è solo da aspettare la fine del lockdown. Per ora.

L’Arabia giovedì ha chiesto la convocazione dell’Opec+, anticipando la sua disponibilità a tagliare la produzione di 9 milioni bpg, a patto che tutti diminuiscano la produzione. E per tutti intende anche Stati Uniti, Canada e i membri del G20. Nello stesso giorno il presidente Trump ha dato notizia di una telefonata tra il principe saudita Bin Salman e il presidente russo Vladimir Putin sul possibile taglio della produzione di 10-15 milioni bpg, colloquio poi smentito dal Cremlino. Ma il tweet partito dalla Casa Bianca ha innescato il rally del greggio a Wall Street, già rinfrancato dall’annuncio della Cina di voler incrementare le sue riserve nazionali ma soprattutto dalla riunione fissata in teleconferenza per lunedì dell’Opec+ estesa anche a chi non ne fa parte.

La strategia di Trump di questi giorni ha alimentato le aspettative dei mercati su un possibile accordo tra Mosca e Riad perché, nella guerra dei prezzi, sono i produttori texani i primi (ma non gli unici) a farne le spese. La Casa Bianca ha deciso di convocare nel week end i Ceo dei grandi gruppi Usa, come Exxon Mobil, Chevron, Occidental Petroleum e Continental Resources, per rassicurarli sulle misure a sostegno del settore in un mercato devastato dalla pandemia.

Com’è noto, gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori al mondo di greggio grazie allo sfruttamento dei suo giacimenti di shale oil (scisto), nonostante i costi  più alti dovuti alla tecnica di estrazione utilizzata. Il fracking, ovvero la fratturazione idraulica, consente la separazione di greggio dalle rocce di scisto presenti in abbondanza in alcune aree degli Stati Uniti (le Bakken Formation nel Nord Dakota, il Bacino Permiano in Texas e Oklahoma) attraverso enormi quantità d’acqua ad alta pressione e sabbia. Si tratta di una pratica controversa, sicuramente molto dispendiosa sia sul piano ambientale sia economico. Inoltre i depositi di scisto si prosciugano più rapidamente, rendendo necessarie continue trivellazioni per continuare a estrarre. Affinché lo scisto sia remunerativo, si calcola che il prezzo del greggio non debba scendere al di sotto della soglia dei 35 dollari al barile, più o meno. Questa è la soglia a cui guardano le compagnie di shale. La musica non è diversa per gli altri Paesi. Per far quadrare i conti dei loro bilanci, l’Arabia ha bisogno che il barile scambi al prezzo di 80 dollari, la Russia a 40 dollari.

Grazie allo sfruttamento intensivo dei suoi giacimenti, in particolare del Bacino Permiano, gli Usa hanno visto realizzarsi il sogno dell’indipendenza energetica tanto sventolata dal presidente Trump. Dal 6 marzo scorso quel sogno rischia di trasformarsi in un incubo. La Russia ha rispedito al mittente la proposta di tagliare ulteriormente la sua produzione, come volevano i sauditi, pur correndo il rischio, alla lunga, di saturare le scorte. Tenere i prezzi sui livelli attuali significa prima di tutto arrecare un enorme danno ai produttori di shale americani facendo affidamento sul fatto che non possono resistere per molto. Il caso di Whiting insegna. Invece di tagliare la produzione, Mosca punta quindi a tagliare lo shale oil fuori dal mercato, prima di tornare a sedersi al tavolo con l’Opec. Almeno, secondo diversi analisti, questa è la strategia russa che costringe lo storico competitor saudita a contrattaccare: a maggio Riad ha previsto l’incremento di 600mila barili al giorno. L’alternativa è un accordo in seno all’Opec+ con la partecipazione degli Stati Uniti. L’incontro in videoconferenza è stato fissato per lunedì 6 aprile, e ci si aspetta la partecipazione quantomeno del Texas.

“Questa volta Russia e Arabia non riuscirebbero da sole a sostenere il taglio, anche se volessero. Con un crollo della domanda di 25 milioni di barili al giorno è indispensabile che anche gli Usa facciano la loro parte”, dice Davide Tabarelli di Nomisma Energia.

Mentre l’accordo Opec+ (Opec + Russia e altri Paesi) era in vigore, gli Stati Uniti hanno continuato ad incrementare la loro produzione e scalato in pochi anni la classifica dei produttori mondiali. Come ha evidenziato Goldman Sachs, dal novembre 2016 la produzione dell’Opec e della Russia è stata ridotta di 4,4 milioni di barili al giorno mentre il resto del mondo l’ha aumentata di 5,7 milioni di barili, la maggior parte dei quali è opera delle compagnie shale americane. Ora la produzione a pieno ritmo di sauditi e russi sta devastando l’industria del petrolio Usa. Il settore americano rappresenta una componente importante dell’economia nazionale, con 10,9 milioni di posti di lavoro, secondo l’American Petroleum Institute. Già molti dipendenti stanno ricevendo lettere di licenziamento, in una crollo devastante dell’occupazione che coinvolge, com’è noto, tutte le filiere: nelle ultime due settimane le richieste di sussidi di disoccupazione sono aumentate di 10 milioni negli States. L’Agenzia internazionale dell’Energia calcola che, a questi prezzi, “sono a rischio 50 milioni di posti di lavoro tra raffinazione e vendita al dettaglio”. Uno tsunami.

E’ certo che il crollo del prezzo porterà a un consolidamento del mercato di greggio, con la chiusura delle società più deboli e la sopravvivenza dei colossi. A trarne vantaggio saranno coloro che hanno tenuto aperti i pozzi e riempito fino all’ultimo tutte le aree di stoccaggio a disposizione con riserve pronte a inondare il mercato alla fine del lockdown. Ma si fa sempre più evidente che al tavolo della tregua dovranno sedersi tutti, stavolta.

Il Presidente Usa deve però fare i conti con le resistenze dei suoi produttori, da sempre refrattari al meccanismo delle quote e favorevoli al “libero mercato” che ha consentito loro di surclassare i competitor stranieri. La decisione non è di quelle semplici. Per Trump significa rinunciare al primato dell’indipendenza energetica, perché qualsiasi taglio di efficace portata causerebbe la perdita di quote di mercato rilevanti, a vantaggio di russi e sauditi. Gli Stati Uniti potrebbero tornare a essere importatori netti di petrolio.

Tra le armi a disposizione della Casa Bianca c’è l’acquisto potenziale di 700mila barili al giorno per la riserva nazionale, la Strategic Petroleum Reserve, ma per effettuare una spesa che si aggira sui tre miliardi di dollari serve il via libera del Congresso, da aggiungere alle già ingenti risorse movimentate dall’amministrazione Trump, tra cui anche una forma di helicopter money.

Le leggi federali vietano accordi sulla produzione, ma la decisione in una situazione come questa spetta agli Stati. In particolare, alla Texas Railroad Commission, l’ente regolatorio dello stato che estrae il 41% del totale Usa. “In teoria il Texas potrebbe tagliare la produzione del 10% e se l’Arabia volesse ridurla del 10% rispetto ai livelli precedenti la pandemia e la Russia facesse lo stesso”, ha osservato il Ceo della TRC Ryan Sitton. “Il mercato potrebbe tornare a livelli precedenti la crisi (solo in lieve sovrapproduzione)”. Tuttavia sono tanti a essere contrari: il presidente della Railroad Commission, Wayne Christian, ha spiegato di “essere aperto a tutte le idee per proteggere” l’industria texana ma “come sostenitore del libero mercato ho una serie di riserve su questo approccio”. L’idea non piace nemmeno all’American Petroleum Institute, di cui fanno parte anche major come ExxonMobil e piccoli produttori indipendenti. “Pensiamo che imitare l’Opec sia la direzione sbagliata. In definitiva, riteniamo che le quote finiscano per penalizzare una produzione efficiente”, ha dichiarato Frank Macchiarola, vicepresidente senior dell’Api sollecitando invece soluzioni diplomatiche. “Questa volta”, dice Tabarelli di Nomisma, “i produttori texani potrebbero scavalcare Trump e decidere di accordarsi sul taglio della produzione. Il Texas è chiamato quindi a riaffermare la sua autonomia conquistata in questi anni e andare oltre le leggi federali non tanto per fare un torto a Trump ma per la sua stessa sopravvivenza: se il prezzo scende a 10 dollari, i produttori texani chiuderanno comunque”.

Giovedì Sitton ha avuto un colloquio con il ministro dell’Energia russo Novak e si è discusso di un possibile taglio di 10 milioni di bpg. Trump ha invece promesso che gli Usa non cederanno a Mosca e Riad, e il Cremlino al momento non ha confermato la sua partecipazione all’incontro fissato per lunedì. Riad dal canto suo si dice pronta a tagliare ma solo se anche altri lo faranno. La decisione saudita ha indispettito diversi membri conservatori del Congresso che adesso mettono in discussione anche la collaborazione sulle armi con i sauditi. L’effetto domino su rapporti geopolitici è evidente e, con la perdita del primato energetico e il boom della disoccupazione negli Usa, rappresenta la più grave minaccia sulla riconferma di Donald Trump alla Casa Bianca.

Sorgente: Non si sa più dove mettere il petrolio | L’HuffPost

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