«Nessuno si azzardi a subdole opere di rimozione del significato originale del 25 aprile che rimane pilastro intoccabile della Repubblica», ammonisce il presidente Sergio Mattarella.
«C’era una volta», prima del 25 aprile
Anche di una parte della nostra storia che, chi oggi cerca di sminuire o rimuovere i valori di quel 25 aprile di 75 anni fa, vorrebbe riuscire a nascondere.
Arrivo di donne e bambini al campo di concentramento di Arbe
Italiani non sempre ‘brava gente’
La guerra si era appena conclusa quando nell’estate 1946, da parte jugoslava, fu avanzata la richiesta di estradizione di criminali di guerra italiani. Non si trattava di una sorpresa, perché un anno prima era stata redatta una nota italiana in cui si parlava invece di crimini commessi da jugoslavi contro cittadini italiani. Le vicende successive della ‘guerra fredda’ e in particolare la clamorosa rottura di Tito con l’Unione Sovietica rimescolarono le carte. Nel rispetto dei principi del diritto internazionale furono aperte istruttorie contro ‘presunti’ criminali di guerra italiani da parte di tribunali italiani. Ma poi furono archiviate. Del resto, qualche anno dopo, sarebbero state archiviate inchieste anche nei confronti di crimini di guerra commessi da truppe tedesche in Italia. E su tutte le vicende scese l’oblio, nonostante il 25 Aprile.
Occupazione e deportazioni condotte dagli italiani
Nell’aprile 1941 il regno di Jugoslavia fu invaso dai tedeschi e dagli alleati italiani, bulgari e ungheresi. Il motivo principale per Hitler era costituito dal timore di una svolta filo inglese nel regno balcanico, ma per gli altri paesi si trattava invece di mere annessioni territoriali. L’Italia fascista in particolare ottenne la Slovenia occidentale che divenne la provincia di Lubiana, ingrandì la provincia di Fiume e creò il Governatorato della Dalmazia; a sud si ingrandì il regno di Albania occupando il Kosovo e il Montenegro divenne un protettorato italiano. Falliti i tentativi di italianizzare la Slovenia e le altre zone, si manifestò ben presto una forte opposizione agli invasori che in breve divenne resistenza vera e propria. Già nell’autunno del 1941 cominciarono quindi deportazioni di popolazione civile dalla provincia di Lubiana, ma anche dalla Dalmazia e dal Montenegro.
I civili furono internati in diversi campi di concentramento sparsi nella Jugoslavia occupata all’Italia. Ad insediare, costruire, dirigere e sorvegliare questi campi di concentramento furono quindi italiani, il cui comportamento non fu molto diverso da altri aguzzini.
Gonars e altri campi
Il campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, originariamente era stato concepito per raccogliere prigionieri di guerra russi. Fu invece destinato all’internamento dei civili rastrellati a partire dal febbraio 1942, quando in una notte i soldati dell’XI corpo d’armata comandato dal generale Robotti circondarono Lubiana con un recinto invalicabile di filo spinato, arrestando e deportando indiscriminatamente tutti maschi adulti. Nel giugno dello stesso anno Gonars, progettato per tremila prigionieri, ne conteneva già il doppio, mentre la situazione igienico-sanitaria era fuori controllo per il dilagare della dissenteria e di altre malattie infettive che, non curate, mieterono centinaia di vittime. Il dato potrebbe sembrare eccessivo, ma, nel cimitero della località friulana, nel 1973 è stato edificato un ossario che raccoglie i resti di 453 persone.
Altri campi destinati ai rastrellati o ai sospetti jugoslavi, sorgevano a Visco (Udine), a Chiesanuova (Padova), a Renicci presso Anghiari (Arezzo) e Monigo (Treviso). In assenza di una cifra esatta sul numero dei deportati dalla Jugoslavia una stima ragionevole si aggira intorno ai 25.000.
L’immagine intera dei bambini deportati nella ‘Buchenwald’ italiana
La Buchenwald italiana
Il triste primato di essere il campo di concentramento italiano con una percentuale di morti rispetto al numero degli internati quasi analoga a quella di Buchenwald spetta all’isola di Arbe, oggi Rab, a sud di Fiume.
Costituito a partire dall’estate del 1942, il campo di Arbe consisteva in quattro recinti circondati di filo spinato all’interno dei quali non erano ancora state costruite delle baracche, ma erano state provvisoriamente montate solo delle tende. Fino alla chiusura nel settembre 1943 per il crollo italiano la situazione dei ripari rimase comunque precaria e la seconda causa di morte, dopo la denutrizione – deprecata perfino in un rapporto ufficiale delle autorità militari –, furono appunto le malattie respiratorie provocate dal clima e soprattutto dal gelido vento di bora: in alcune giornate invernali tra il 1942 e il 1943 si toccò il picco di una trentina di morti al giorno. Non stupisce che il numero dei morti commemorati nel monumento che sorge ora nei pressi del campo superi abbondantemente il migliaio e comprenda purtroppo anche donne e bambini.
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