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«Rischiamo l’annichilimento di milioni di persone, con il prossimo virus»: lo scrissero gli studiosi, dopo l’epidemia di Sars. Dai mercati cinesi alla risposta politica, dalla gestione degli ospedali a quella dello stigma: perché non è stato fatto nulla per prepararci?

di Sandro Modeo

(fotografia: Una civetta delle palme in gabbia in un mercato cinese, nel dicembre 2003 – Afp)

L’irruzione dell’«unfamiliar» (del non-conosciuto) e dello spaesamento prolungato cui siamo sottoposti dipende soprattutto da un limite mnemonico sull’asse temporale e da una rimozione su quello geografico. Il limite riguarda lo scarto tra memoria storica e memoria biologica, sottolineato già da Manzoni nei capitoli sulla peste dei Promessi sposi, quando — descrivendo l’espandersi del morbo a macchia di leopardo «in questo o quel paese» lombardo — lo riconduce a «mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi»: solo ai più anziani, che ricordano la peste di San Carlo «di cinquantatrè anni avanti» — cioè a pochissimi individui, specie in una comunità dall’aspettativa di vita piuttosto bassa — quei segni non risultano «nuovi». Lo stesso vale per noi oggi: l’ultimo, vero shock epidemico è la Spagnola di cent’anni fa; e nessuno — a parte qualche ultracentenario — può averne memoria se non per testimonianze documentarie o racconti di seconda mano. La rimozione riguarda il nostro sguardo inevitabilmente eurocentrico (o meglio occidentale), che delega a un fuoricampo, quello africano, devastazioni epidemiche che non sembrano riguardarci. Non negli ultimi cent’anni, ma anche solo negli ultimi trenta, l’Africa è stata colpita duramente dall’HIV (area subsahariana) e da Ebola, a tacere di epidemie «minori», per decine di milioni di morti: ma tutto questo sembra appunto confinato — dal nostro punto di vista — in una rassicurante (perché distante) dimensione arcaica, da ricondurre un po’ a colpe nostre (i tanti «dark side» del colonialismo), un po’ a colpe loro (dittature diffuse e corrotte, guerre civili permanenti). Non sembra passarci per la mente nemmeno per un attimo che il nostro «unfamiliar» sia, per tanti di loro, il «quotidiano».

«Segnali dal futuro»

Ma c’è un terzo aspetto — più sottile e insidioso — nell’ombra che si allunga in questi mesi: il non aver saputo ascoltare i «segnali dal futuro» — come recita il film di Alex Proyas — della prima SARS(patogeno SARS-CoV), che estende la sua offensiva tra novembre 2002 e luglio 2003, con una breve ripresa tra 2004 e 2005, in «appena» 29 Paesi, soprattutto Cina, Hong Kong, Taiwan, Singapore, Vietnam e Canada. I motivi principali della sottovalutazione, probabilmente, emergono già dai dati bruti: la stessa perimetrazione geo-temporale; il numero relativamente basso di casi (8096) e decessi (774), che offusca il drammatico tasso di letalità (10,88%); il danno economico complessivamente modesto e rapidamente riassorbito (anche se non irrilevante nei Paesi asiatici, dove ammonta a 60 miliardi di dollari).

Di fatto, la SARS viene percepita soprattutto come un evento «locale», che vede recisa sul nascere la ramificazione pandemica. Eppure, in tanti, tantissimi «addetti ai lavori» rimarcano in tempo reale proprio il potenziale pandemico di quell’evento. È una progressione — a posteriori — impressionante: nell’aprile 2003 un esponente della Sanità Usa prospetta (in caso di pandemia) 60.000 morti americani; nel maggio, il medico canadese e senior fellow del Manhattan Institute David Gratzer definisce quel virus (sulla Natural Review) «un avvertimento», paragonandolo «agli attentati “preparatori” dell’11 settembre»; in dicembre, un altro medico canadese, Paul Caulford dell’ospedale Scarborough di Toronto, descrive l’epidemia in modo tutt’altro che rassicurante («ha spezzato uno dei più raffinati sistemi sanitari del mondo mettendolo in ginocchio in poche settimane» [quello canadese]) e profila una prognosi funesta («Senza significativi interventi sanitari a livello locale e globale, rischiamo l’annichilimento di milioni di persone, con questo stesso virus, o il prossimo»); nel 2004, l’autorevole virologo britannico Robin Weiss pubblica a quattro mani con Angela McLean uno studio dal titolo semi-ironico («Cos’abbiamo imparato dalla SARS?») il cui sunto è inequivocabile («L’umanità l’ha scampata bella»); e nel 2005 esce per Stanford University Press un denso libro collettivo (in realtà trascrizione elaborata di un convegno dell’East Asian Research al Fairbank Center, Harvard, del settembre 2003, quindi più che mai «sul tamburo») dal titolo emblematico: SARS in China. Prelude to Pandemic?Come riassume David Quammen — ormai asceso col suo Spillover allo status di rockstar — tanti fattori hanno dovuto convergere per l’esito favorevole di quell’«episodio» epidemico: la rapida identificazione genomica del virus (due settimane) e la collaborazione internazionale; le efficaci misure di contenimento in tutti i Paesi coinvolti; l’isolamento draconiano di certi Istituti, come il prestigioso Tan Tock Seng di Singapore. Ma come riassumono ancora più seccamente altri studiosi, tutto questo non sarebbe bastato senza la serendipity, il «volto favorevole» del caso, che non ha lasciato aperti spifferi molecolari nel contenimento locale e globale del patogeno. Spifferi che invece si sono aperti per SARS-CoV-2: a cominciare da quello che vede un asintomatico tedesco — un impiegato della bavarese Webasto, a sua volta contagiato da una collega di Shanghai in un meeting aziendale intercontinentale a Monaco — «passare» nel lodigiano tra 24 e 26 gennaio, innescando il contagio italiano. Quella serendipity, in definitiva, ha contribuito a sua volta alla sottovalutazione, alla velatura dei segnali inascoltati, come mostra anche la risposta timida dell’Oms.

Ripercorrerli e verificarne l’incidenza non significa prodursi in un esercizio da «senno di poi»; ma vedere invece, da un lato, quanto ancora si possa apprendere in previsione dei prossimi mesi dell’evoluzione pandemica (in un’«uscita» ancora lunga); dall’altro, cominciare fin da ora a inibire l’outbreak di altre epidemie-pandemie, che potrebbero seguire COVID-19 o addirittura accavallarvisi. Quindi, cercare di immaginare un vero «dopo», nel senso di una profonda discontinuità a livello di prevenzione/intervento.

Il tutto tenendo sempre sullo sfondo la premessa evoluzionistica coi suoi vincoli biologici: il fatto che i virus tentano da miliardi di anni (e sempre tenteranno) ogni via possibile per soddisfare la loro efficacia riproduttiva, compreso il «salto di specie» verso l’uomo; e che tra le prevenzioni sistemiche — per quanto possibile — il primato consiste nel non stravolgere troppo l’ecologia terrestre, con alterazioni (deforestazioni e altro) che aprano ai patogeni nuove nicchie da colonizzare, specie vicino alle metropoli.

«Wet market» e censura

I «segnali inascoltati» davvero decisivi, a monte, sono soprattutto due, riguardanti quasi esclusivamente la Cina: non bisogna stancarsi di ricordarli, senza cedere minimamente a tentazioni xenofobe, ma senza sconti o indulgenze.

Il primo è quello dei famigerati wet markets, di cui abbiamo già parlato ampiamente qui: i mercati di «animali selvatici» che fanno da cerniera tra gli allevamenti intensivi e un’immensa rete di ristoranti specializzati nella relativa cucina cool (yewei): una fantasmagoria gastronomica a base non solo di pipistrelli (reservoir o «ospiti serbatoio» di tanti virus a Rna, in particolare proprio di coronavirus), ma anche di tanti potenziali «ospiti intermedi» in grado di portare quei virus all’uomo per via alimentare o semplice contatto (ratti, serpenti, tartarughe, tassi, furetti e così via).

Com’è ormai noto, il «passaggio» è favorito dalle condizioni di quei «manicomi zoologici»: animali selvatici macellati in loco, tenuti a contatto con quelli domestici, stipati in gabbie a rete verticali in cui la deiezione di chi sta sopra finisce su chi sta sotto. Così è avvenuto infatti per SARS-CoV (in cui il virus del pipistrello ha avuto come «ospite intermedio» lo zibetto o civetta delle palme) e per SARS-CoV-2 («ospite intermedio» molto probabile il pangolino). Ora, con SARS-CoV il governo cinese è intervenuto al riguardo in maniera singhiozzante e trucida: prima — a metà 2003 — vietava le vendite di civette delle palme e di 53 altre specie selvatiche, revocando il tutto pochi mesi dopo per le proteste vibranti (e usando come pezza d’appoggio un nuovo studio «in discolpa» delle civette); poi — alla recidiva dell’inverno 2003/04 — ordinava un’inutile ecatombe di 1000 zibetti, non giustificabile — anzi — col fatto che ancora non si fosse individuato nel pipistrello l’ospite serbatoio. E da allora, più nulla, così da «incubare», in quel silenzio normativo, l’avvio di SARS-CoV-2, puntualmente partito, con ogni probabilità, da un wet market (del pesce) di Wuhan (e poco cambierebbe se — come sostiene qualcuno, Quammen in testa — quello o altri mercati fossero coinvolti «solo» nella propagazione).

Prima o poi la questione andrà presa frontalmente; meglio prima che poi. Il che si dovrà tradurre in risultati più risolutivi del divieto di consumo di cani e gatti (annunciato il 10 aprile: qui l’articolo), e quindi in pressioni molto più consistenti di quelle della Ong cinese per la biodiversità (si veda l’intervista del Corriere al suo capo Zhou Jinfeng) o di Animal Equality sull’ONU (si veda il pezzo di Alessandro Sala). Ci vorranno pressioni politico-economiche della comunità internazionale, con conseguenti tensioni nei rapporti tra Stati. Tenendo conto di una difficoltà ulteriore: il fatto che i divieti relativi potranno alimentare la vendita illegale. Ma un’azione di peso è inderogabile.

Il secondo «segnale» riguarda la «tardiva» risposta cinese (eufemismo) a uno shock epidemico, tra negazionismo, censura e reticenza. Nel caso di SARS-CoV, abbiamo ormai una documentazione immensa su tanti snodi: il lungo silenzio del Politburo (tra novembre 2002 e marzo 2003) per esibire «padronanza e controllo», tutelare i legami economici con Hong Kong e Taiwan (commercio e turismo) e non mostrare a sguardi esterni e investitori stranieri le debolezze del Paese (gli standard di vita impoveriti e un sistema sanitario distrutto nei vent’anni addietro da privatizzazioni sbagliate). Tra minimizzazioni e occultamenti (in primis la lunga negazione iniziale alle ispezioni dell’Oms) e censure sistematiche su giornali (l’«impreparazione» denunciata da People’s Daily) o personalità mediche (il «mitico» dottor Jiang Yanyng, che rivela i molti morti negli ospedali militari; i medici privati che rivelano i «clusters» nascosti nella capitale.), il governo arriverà a una tardiva ma efficace soluzione muscolare con un’apposita task force in grado di imporre, da marzo 2003 in poi, «uno scenario di contenimento» da Paese burocratico-centralista: quarantene per migliaia di persone (rodate fin dai tempi del colera del 1942) con punizioni fino alla pena capitale; scuole chiuse; cancellazione di eventi di massa (il concerto dei Rolling Stones); sorveglianza dei viaggiatori con «temperature check», e così via. Fatto sta che la blindatura del contagio (5327 casi per 349 decessi, letalità del 6,55 %, più basa che altrove) dovrà molto alla citata serendipity.

In questi mesi (sostituiti i Segretari di Partito di allora- Juan Zemin e Hu Jintao- con quello attuale, Xi Jinping) si sono rivisti gli stessi schemi e la stessa progressione: felpature censorio-negazioniste, lotte intestine e relative purghe, ritardi di coinvolgimento della Sanità internazionale, prova «muscolare» ancora più estrema (la blindatura alla Andromeda di Wuhan e dell’Hubei); e anche stavolta — al netto di probabili dati falsati — il «contenimento» interno sembra riuscito (quasi 82.000 casi per poco più di 3300 decessi, letalità del 2,4%). Ma stavolta, la serendipity non ha protetto il Paese. E in questo possono aver concorso errori specifici, persino superiori a quelli commessi al tempo della SARS, come il lungo silenzio sui casi di dicembre (41 accertati) e «gli 11 giorni di Wuhan» (vedi la ricostruzione esemplare di Biagio Simonetta sul Sole24Ore del 6 aprile), cioè il tempo intercorso tra il primo decesso per COVID-19 in loco (il 9 gennaio, vittima un 61enne frequentatore di un wet market) e la comunicazione alla tv pubblica, il 21, da parte dell’epidemiologo Zhang Nashan, lo stesso che aveva contrastato la SARS. In quell’intertempo, il sindaco di Wuhan convoca i cittadini nelle strade per il XXI banchetto del Capodanno lunare (con cibo portato da casa) e 5 milioni di persone si spostano verso la Cina e i Paesi esteri. È presto per individuare eventuali «sliding doors» del contagio; ma una ricerca recente dell’Università di Southampton calcola che un lockdown effettuato a Wuhan tre settimane prima avrebbe ridotto i contagi del 95%, e uno anche solo una settimana prima, del 66. In ogni caso, la diffusione di SARS-CoV-2 sembra confermare un assunto basico: la Cina continua a non comprendere il legame tra eventi locali e ricadute globali; che nel mondo dell’effetto-Lorenz, cioè quell’effetto per cui «un battito d’ali di farfalla a Pechino può scatenare una tempesta a New York» (o se vogliamo di pipistrello, purché si ricordi che tutto dipende dall’uomo) la trasparenza-tempestività non è più un optional. E il Resto del Mondo, a sua volta, sembra sottovalutare quell’incomprensione, così come la possibilità di ritorni pandemici e il fatto che costituiscano il maggiore attrito per la globalizzazione stessa.

Dall’aerazione degli ospedali ai segnali psicologico-psichiatrici

Se proviamo a focalizzare «segnali» più specifici, la sordità o la miopia ci riguardano più direttamente. Sul piano strettamente genetico e biomedico, non c’è dubbio che tra SARS-Cov e SARS-Cov-2 il discrimine sia rilevante: i due genomi a RNA — entrambi affini a quello del virus dei pipistrelli ferro di cavallo — coincidono «solo» al 75-80%: per capire quanto conti una variazione del 20-25%, sarebbe sufficiente ricordare come il DNA dell’uomo e dello scimpanzè coincidano al 99%. In quello scarto, probabilmente, si nascondono le tante differenze e i fattori-sorpresa (maggior contagiosità, minor letalità). Ma, come ricorda Frank Snowden, si notano già in SARS-CoV alcune invarianze di cui poter tenere conto: il contagio «da uomo a uomo» senza vettore; il periodo di incubazione asintomatica superiore a una settimana; sintomi insidiosamente sovrapponibili ad altre patologie.

Ma soprattutto, la SARS evidenzia già due tratti altamente distintivi che avrebbero dovuto allertare: la pressione esercitata sui sistemi sanitari (sia per la severità dei sintomi che per l’entità e la velocità del contagio ospedaliero a medici e infermieri) e la capacità di colpire tutti i Paesi, anche quelli più ricchi e attrezzati proprio sul piano sanitario; pur continuando a investire in quei Paesi, va da sé, soprattutto le aree più esposte, come le banlieu metropolitane. Sono tratti che arrivano a generare dei paradossi, come quello — ricordato da Andrew Price-Smith — che vede più in difficoltà ospedali d’avanguardia rispetto a strutture ordinarie; vedi il confronto tra quelli canadesi (dove camere sigillate e split di condizionamento caldo/freddo favoriscono la diffusone del patogeno) e quelli «dimessi» del Vietnam, le cui camere aerate naturalmente contengono invece il contagio, soprattutto quello nosocomiale: non a caso, il saldo finale vedrà proprio il Vietnam tra i Paesi asiatici meno colpiti, con 63 casi e 5 vittime, tutte tra i sanitari per aver prestato il primo soccorso. Tra queste, com’è noto, il «nostro» Carlo Urbani, il microbiologo in stanza ad Hanoi la cui intuitività e dedizione saranno risolutive in tutta la gestione della SARS. Urbani, infatti, non solo coglie nel primo paziente locale (l’uomo d’affari Johnny Chen) una «sindrome inedita», avvertendo subito l’Oms, ma— una volta compreso, durante il volo Hanoi-Bangkok, di esserne contagiato — si fa isolare in quarantena, invitando i medici tedeschi e australiani, nel frattempo arrivati sul posto, a prelevare tessuti dai suoi polmoni per «affinare la ricerca». Di questo forte impatto nosocomiale — rimarcato anche in alcune raggelanti sequenze in Spillover di Quammen — non si è tenuto conto a sufficienza all’arrivo di SARS-CoV-2. Non è improbabile che un atteggiamento diverso —cominciando da una maggiore copertura profilattica da subito, leggi mascherine e indumenti adeguati — avrebbe contenuto sia i contagi che le vittime, a partire proprio dal corpo sanitario; quanto ai contagi, basterebbe citare l’ospedale di Wuhan, che a gennaio vede il 65% dei medici colpiti; quanto alle vittime, proprio l’Italia, che al 10 aprile ne conta 136 (110 medici e 26 infermieri). E forse sarà il caso di tener presente — in prospettiva del caldo e dell’estate — la lezione del raffronto canadese/vietnamita, tra l’incidenza patogena degli split e l’efficacia di un’aerazione naturale.

Del resto, proprio la risposta deficitaria al marcato contagio nosocomiale è una delle cerniere verso gli aspetti psicosociali e psicologico-psichiatrici della SARS, poco noti e piuttosto sorprendenti. Poco nota, ad esempio, è la fuga/evitamento dei pazienti dagli ospedali di Pechino (terrorizzati dall’alto tasso di contagi), al punto da costringere le autorità a presidiarli con cordoni militari. Già lì emerge, cioè, quell’incrocio tra eccesso di ospedalizzazione e deficit di trattamenti «domiciliari» (e magari di tamponi diffusi) che sarà ed è tutt’ora uno dei versanti drammatici di COVID-19, in primis in Italia. Ma quella è solo una delle tante «forme» della paura/panico in tutti i Paesi coinvolti nella SARS, e in cui il campione «etno-epidemiologico» di Hong Kong (1755 casi, 299 decessi, letalità del 17%) è particolarmente significativo; anche perché lì si trovano due luoghi altamente simbolici come l’Hotel Metropole (veicolo di contagio principe di tutta l’epidemia) e il complesso residenziale di Amoy Gardens (agglomerato di 17.000 condomini suddivisi in 19 Blocchi). Definita da molti l’«11 settembre» hongkonghese, la SARS mostra lì un chiaro impatto collettivo e individuale, ovviamente in parte riscontrabile in altri Paesi, Cina in testa. L’impatto collettivo rivela un potente mix di rigetto/negazione iniziale davanti all’«irrealtà» del contagio: stazione che — secondo alcuni epidemiologi — costituirebbe il primo «pattern» di reazione in ogni pandemia, seguìto da altri tre (panico, mix di alienazione-frustrazione-rabbia, lenta elaborazione razionale).

Soprattutto nelle stesse fasi iniziali, i comportamenti sono prevedibili, quasi pavloviani, come l’irradiarsi di congetture paranoiche: proprio a Amoy Gardens (quando il Blocco E rivela 200 contagiati) partono le illazioni più disparate sul «vettore»: scarafaggi, ratti, tasti di ascensori, operai che hanno urinato nei pressi. Più controintuitivi, invece, sono i comportamenti a lungo termine: se stacchiamo per un attimo da Hong Kong alla Cina, ne troviamo un esempio nell’elaborazione «esorcistico-ironica» dell’epidemia, che si traduce in un repertorio di «jokes» (storielle e barzellette) declinato nella satira al Partito ma anche in un registro surreale ben riassunto nel decalogo delle «morti patafisiche» («sei morto» per soffocamento da mascherina permanente; per «overdose» di erba medicinale — sfottò verso la medicina naturale confuciana —; per «aver dato fuori di matto» ed essere stato ricoverato in manicomio, dove hai contratto il virus, e così via).

Ma più significativo — ai nostri occhi — è l’impatto a livello individuale, da suddividere tra quello dei«suscettibili» e dei pazienti. I suscettibili manifestano nel 20% dei casi vari ordini di «disordini emotivi», da quelli più ovvii (ansia e panico, difficoltà di concentrazione e di allentamento dell’ossessione epidemica) a quelli meno scontati (i poli opposti dell’insonnia e dell’aumento di attività onirica): molti, peraltro, riconducibili a patologie già conosciute come il disturbo da stress post-traumatico. Mentre nei pazienti è difficile separare sintomi neuropsicologici «naturali» da quelli indotti dal trattamento farmacologico (in un’alternanza/sovrapposizione di euforia e atonia, irritabilità e ipercinesia); anche se inequivocabili — e noti — sono i nessi tra i cortisonici e certi stati psicotici (allucinazioni incluse) e soprattutto la constatazione — nei guariti dall’emergenza polmonare — di disturbi a lungo termine come la letargia e vari tipi di amnesie. Forse già in SARS-CoV, quindi, emerge un coinvolgimento del sistema nervoso che stiamo riscontrando (insieme al livello cardiaco e renale) anche in SARS-CoV-2, e che non andrà trascurato nelle degenze dei prossimi mesi. Ombra nell’ombra (trait d’union angoscioso fra suscettibili e pazienti) è l’affiorare, già nella SARS, di casi di pazienti ricoverati d’urgenza e «mai più visti»: decessi solitari, diventati con COVID-19 tragedia comune e diffusa.

Lo stigma e il Nuovo Mondo

Un ultimo capitolo — quasi degno di una trattazione a sé stante — è composto dallo «stigma» (il «marchio sociale», secondo l’intuizione di Erving Goffman) che colpisce varie categorie di malati o «sopravvissuti» nei Paesi asiatici colpiti dalla SARS. I casi più eclatanti sono esplosioni da «peste manzoniana»: vedi l’assalto di contadini (aprile 2003) a un ospedale in costruzione in area rurale, con camere in stato di finitura fatte a pezzi, materiali di costruzione bruciati, imposte sbarrate (evento in contrasto, per fortuna, con costruzioni simili terminate in aree urbane, poi utili come esempi per la Wuhan di quest’anno); o, nello Zhejiang, abitanti infuriati che spaccano finestre e mobili di edifici ospitanti «infetti».

Ma i casi che più ci interessano sono meno estremi e più subdoli: medici e operatori che rifiutano di curare malati di SARS; altri — a rovescio — respinti dai barbieri o da certi colleghi; imprese funerarie che negano trattamento e sepoltura delle vittime; e ancora, ex-malati (o loro parenti) licenziati, «segregati» o costretti a portare mascherine, i loro figli espulsi dalle scuole, e così via. Qui, il campione di Amoy Gardens diventa insieme compendio e metafora: molti condomini (sia ex-malati che suscettibili) vengono «confinati» e boicottati dai fornitori di servizi, al punto da esser costretti a svendere casa e trasferirsi; e in generale il villaggio viene cancellato dalla topografia, diventando una «città morta» o un «lebbrosario».

La pratica dello stigma, per certi aspetti, nelle culture orientali è più marcata che nelle nostre. Ma ha almeno un paio di implicazioni che ci riguardano: il suo rovescio naturale cioè il senso di colpa della vittima, che può declinarsi in reazioni autodistruttive estese dalla depressine al suicidio; e lo schema del «capro espiatorio» (maggioranza contro minoranza) o del «noi contro loro», spesso virato in senso razziale, in questo caso nell’avversione ai «cinesi untori».

Ma ancora una volta, più insidiosa è la «zona grigia» di indeterminatezza statistico-epidemiologica, che nel 2003-04 si limitata a un breve periodo di ambiguità e che invece ora ci si profila davanti come un’angosciosa coreografia di riaperture asincrone (tra regioni, tra industrie e cittadini) e asimmetriche (tra detentori di «patenti di immunità» e suscettibili, giovani e anziani, e chissà quali altre categorie), con infide discriminazioni e vaghi rintocchi da Nuovo Mondo huxleyano.

In questo, lo scenario che si apre è davvero inedito, con SARS-CoV-2 che si distanzia da SARS-CoV (anche per il gap dell’impatto socioeconomico: basti pensare ai 200 milioni di posti di lavoro già persi) come un’immensa foresta intricata a un bonsai sul davanzale. Chi lo trovasse, legittimamente, insostenibile, potrebbe tornare al limite mnemonico e alla rimozione di cui si diceva in apertura: provare a realizzare — anche se non è immediato né naturale — che 75 anni «senza guerre» e un secolo senza pandemie sono state un’oasi spazio-temporale da cui, prima o poi, si sarebbe potuto e dovuto mettere in conto di svegliarsi.

I libri e le fonti
Il libro principale impiegato per questo articolo è SARS in China: Prelude to Pandemic?, Stanford University Press, 2005, volume con più contributi a cura di Arthur Kleinman e James L. Watson, cattedre di Psichiatria e Antropologia ad Harvard (il secondo da non confondere col quasi-omonimo biologo-genetista, co-scopritore con Francis Crick dell’elica del DNA).
Sono stati utilizzati anche:
Andrew Price-Smith (cattedra di Scienze Politiche al MIT, purtroppo scomparso nel luglio 2019 a soli 50 anni), Contagion and Chaos, Disease, Ecology and National Security in the Era of Globalization, MIT Press, 2008;
Mark Harrison (cattedra di Storia della Medicina a Oxford), Contagion: How Commerce Has Spread Disease, Yale U.P., 2013;
Frank M. Snowden (Professore Emerito di Storia a Yale), Epidemics and Society, Yale U.P., 2019.

Sorgente: La Sars aveva predetto tutto sul coronavirus. Perché non è stato fatto nulla per prepararci?

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