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La fase 2 e noi: il virus è attivo, apriamo perché non resistiamo più

Perché la sofferenza di molti non si trasformi in rabbia, ci serve una novità nel nostro dibattito pubblico: un’assunzione di responsabilità individuale e spontanea da parte degli attori principali di questa crisi

di Paolo Giordano

Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati. Il giorno precedente 32. Ieri, in Piemonte, la mia regione che non ho mai sentito così geograficamente lontana, i nuovi infetti confermati erano 394. Nella Lombardia limitrofa 920.

Però apriamo. O meglio, iniziamo ad aprire, perché lo fanno anche gli altri, perché si avvicina l’estate e sotto sotto speriamo che il caldo ci dia una mano; perché ci auguriamo di aver imparato una serie di norme e di mantenerle a lungo, perché il virus forse, chissà, si dice, è diventato meno aggressivo. In realtà, abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo. Anche il quadro epidemico si piega davanti all’ipotesi di un’economia strangolata.

I dati migliorano, ma il contagio in Italia è attivo, anzi è vispo, e dire che il 4 maggio «non è un liberi tutti» non rende affatto l’idea di ciò che stiamo per fare, ovvero addentrarci in un pericolo, con più consapevolezza individuale rispetto all’inizio, con maggiore tutela strutturale, certo, ma in una situazione che probabilmente non è troppo dissimile da quella di metà febbraio. Stiamo dicendo «dovremo convivere col virus», ma dovremmo dire «stiamo per sfidare il virus». Perciò, chi sa di essere vulnerabile alzi ancora di più la guardia da qui in avanti.

Per fortuna, là fuori, avremo l’app a proteggerci. Prima o poi arriverà. Supponiamo che sia già metà luglio, oltre il 60% della popolazione italiana ha l’app scaricata e funzionante sullo smartphone, il bluetooth ha dimostrato di essere efficace sul raggio di distanza necessario e i nostri dati sensibili sono trattati in maniera anonima da un ente pubblico. Siamo nello scenario migliore ma, brutta sorpresa, ricevo un alert che mi avvisa di essere stato accanto a un infetto. Quel che dovrei fare è mettermi in quarantena per quattordici giorni. Ma chi mi pagherà quelle ferie inaspettate? Saranno giorni di mutua? E sarà l’app sovrana a stabilirlo?

Secondo uno studio pubblicato su Science da Luca Ferretti e il suo gruppo di Oxford, il contact tracing è efficace se l’isolamento di tutte le persone allertate scatta entro tre giorni dalla comparsa dei sintomi nel soggetto infettato. Tre giorni che comprendono, per quella persona infetta, l’aver riconosciuto i sintomi, aver consultato il medico di famiglia, essere stato sottoposto a tampone e averne ricevuto il risultato; per tutti gli altri che si sono scoperti a rischio, l’aver messo di nuovo in stand-by la propria vita. A Torino, la mia città mai così lontana, centinaia di comunicazioni di casi sospetti inviate dai medici di famiglia sono state perse a causa del sovraccarico di una casella di posta. E ancora oggi, mi confermano da diverse parti, ottenere un tampone in presenza di sintomi non è affatto scontato. Ecco i presupposti con cui entriamo nell’era della salvezza tecnologica. Mi chiedo allora: la catena che va da me che installo coscienziosamente l’app fino al laboratorio dell’ospedale è stata rafforzata in ogni suo anello per garantire l’efficienza di questo nuovo delicato meccanismo? La stessa efficienza sarà garantita ovunque, anche a novembre, quando la confusione con le altre patologie stagionali farà scat-tare una quantità enorme di falsi allarmi?

Assicurato il corretto funzionamento dell’ingranaggio, poi, rimane il fatto principale: tutto ciò che riguarda il tracciamento dei contatti, dall’installazione dell’app fino alla forza d’animo d’isolarsi quando tutti gli altri sono fuori e non si hanno sintomi di alcun tipo, sarà su base volontaria. L’intera tenuta della fase 2 è su base volontaria.Quella a cui stiamo per essere sottoposti è la più grande sperimentazione mai fatta sulla nostra responsabilità individuale.

Sarebbe provvidenziale, quindi, che un esempio straordinario di responsabilità arrivasse dall’alto. Purtroppo, la concordia e la compostezza dell’inizio emergenza sono finite da un pezzo. Tra le regioni, tra i politici, anche tra gli esperti si va già a rintracciare nella cronologia chi abbia sottovalutato di più e più gravemente la minaccia, chi non aveva capito o peggio, chi aveva capito e non ha parlato. Se da bambini ogni litigio sfociava nel «ha cominciato prima lui!», nel contagio l’accusa è contraria: «ha cominciato dopo lui!». Alle accuse si risponde con altre accuse più forti, oppure rivendicando fieramente: «abbiamo fatto tutto bene. Stiamo facendo tutto bene. Anzi, rifaremmo tutto identico». Sul serio? Sopra le traiettorie degli indici puntati, intanto, si dispiega un grande condono all’italiana: «era impossibile da prevedere… anche gli altri paesi… l’Italia poi si è trovata per prima… una situazione senza precedenti».

«“Scusa” sembra essere la parola più difficile», cantava Elton John. Da queste parti è una parola difficilissima. Ma questa volta abbiamo bisogno di essere stupiti. Perché la sofferenza di molti non si trasformi in frustrazione e poi in rabbia indiscriminata, ci serve una novità nel nostro dibattito pubblico: un’assunzione di responsabilità individuale e spontanea da parte degli attori principali di questa crisi, prima che torniamo là fuori. Non di colpa: di responsabilità, laddove le responsabilità comprendono le sottovalutazioni, gli errori, le disorganizzazioni, i ritardi, le leggerezze. L’opinione pubblica sarebbe molto più comprensiva di quanto non si creda. C’è uno spazio inedito di compassione nei confronti del potere, perché tutti riconosciamo l’eccezionalità delle circostanze. Ma non durerà a lungo. L’unico segnale che ho captato finora è un «mi dispiace» del sindaco Gori. Non è molto, ma è un inizio. Un apripista..

La responsabilità, per il momento, è delegata agli scienziati. Non senza alcuni inconvenienti, per esempio un premio Nobel come Montagnier che sposa visioni complottiste e distrugge in dieci minuti gli sforzi di molti per suscitare una coscienza collettiva riguardo alla pandemia. Ma anche qui, soprattutto qui, nessuno si permette di contraddire gli scienziati, mai. In loro presenza ci comportiamo da scolaretti. Fingiamo di dimenticarci che la scienza è umana, che sottovalutazioni, errori, protagonismi, conflitti d’interesse e codardie ne fanno parte come di ogni altra disciplina. In un momento così, questa idealizzazione ci rassicura e ci fa comodo. Chiamare gli scienziati così ossequiosamente in causa, però, assomiglia sempre di più a un paravento: «chiediamo a loro perché noi non ci capiamo nulla. E se facciamo degli errori, va da sé, la responsabilità non è nostra, ma dei loro consigli».

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Almeno, per una volta, compaiono in televisione. Io ho familiarizzato con tutti, perché da quando è iniziato il lockdown guardo molta tivù. Non mi perdo nemmeno un talk-show della sera. Nei talk, insieme agli scienziati, ci sono ovviamente i rappresentanti del governo, i politici e i giornalisti. Poi ci sono moltissimi imprenditori ed esperti di economia, avvocati, ristoratori, tour operator e preti. Rappresentanti della cultura? Rappresentanti della scuola? Ho provato a contarli e come campione, spero abbastanza rappresentativo, ho scelto gli undici talk in prima serata che ho guardato nella settimana appena trascorsa.

In scia a quanto avverrà con l’app, mi limito a riportare i dati aggregati. Gli ospiti legati alla cultura invitati nelle trasmissioni che ho visto, considerando gli ambiti del libro, del cinema, del teatro, della musica e anche dell’architettura, ammontano a 12 su 84 (di cui 3 «organici» al palinsesto). Quelli della scuola a zero. La media aritmetica delle loro età: 66 anni, perché Zerocalcare l’abbassa un po’. Nessun preside, nessun insegnante, nessun editore, nessun produttore cinematografico, nessun libraio. In quella dozzina, una sola donna.

Lo so, bisogna evitare a tutti i costi di personificare il virus, così come di attribuirgli caratteri morali o metafisici. Ma a volte la tentazione è forte, la tentazione di riconoscerne un portatore di verità, capace di smascherare patologie pregresse del sistema che abitiamo. Come una disparità di genere ancora così vistosa. Come la latitanza della scuola e di alcune generazioni dal dibattito pubblico. Come la marginalità della cultura, a eccezione di qualche scrittore o attore che, ogni tanto, svolge la sua funzione ornamentale. Come l’assioma che scuola e cultura siano comparti separati dal resto della vita sociale. Protesi da attaccare e staccare.
Cosa c’entra questo con la «sicurezza sanitaria» e la responsabilità civile di cui abbiamo bisogno perché la fase 2 non diventi un altro cataclisma? Se sorge la domanda, il problema è ancora più grave di quanto sembra.

Sorgente: corriere.it

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