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Mentre i riflettori sono puntati sugli wet market asiatici, in Africa da almeno venti anni il consumo di carne selvatica ha aperto la strada non solo al rischio di pandemie da “salto di specie”, ma anche a una catastrofe di estinzioni e deforestazione

Elisabetta Corrá

Mentre i riflettori sono puntati sugli wet market asiatici, c’è un intero continente in cui, da almeno venti anni, il consumo di carne selvatica ha spalancato le fauci non solo del rischio zoonotico, ma anche di una catastrofe di estinzioni locali: l’Africa.

In Asia, la wildlife economy è tutta declinata sull’allevamento, e sul traffico da oltre oceano, di specie selvatiche che soddisfano abitudini alimentari sofisticate o tradizionali, in condizioni igieniche più che discutibili. Un business enorme: “la wildlife farming cinese include 6.3 milioni di soggetti coinvolti direttamente (practitioners) e un valore di fatturato di 18 miliardi di dollari”, ha scritto su SCIENCE lo scorso 27 marzo un team di ricercatori cinesi. Ma in Africa è tutta una altra storia, e decisamente più preoccupante. Lo ha detto tra le righe la Executive Secretary della Convenzione Mondiale per la Biodiversità, Elizabeth Maruma Mrema in una intervista al quotidiano britannico The Guardian, sotto una raffica di appelli internazionali per chiudere per sempre, senza appello, subito, ogni mercato di wildlife del Pianeta: “Sarebbe bene bandire i mercati di animali vivi come hanno fatto la Cina e altre nazioni. Ma dovremmo anche ricordarci che ci sono comunità, soprattutto nelle aree rurali a basso reddito, specialmente in Africa, che dipendono dagli animali selvatici per la sopravvivenza di milioni di persone. Senza alternative per queste comunità, c’è il rischio dell’emergere del commercio illegale di animali selvaggi, che già adesso sta conducendo alla soglia dell’estinzione alcune specie”.

Se, insomma, quel che avviene in Cina, a Wuhan e altrove ha a che fare con il pericolo sanitario, con i diritti degli animali in gabbia, e con una economia non sempre accettabile sul piano etico, in Africa la questione della carne selvatica  – il bushmeat – offre invece uno scenario umano ed economico completamente diverso. La caccia, di frodo o meno, fa la differenza tra lo stomaco pieno e una affamata miseria. Nel bacino del Congo (Cameroon, Guinea equatoriale, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Repubblica Centro Africana), ma anche in Ghana, in Sierra Leone, in Liberia, in Burkina Faso e in Senegal il bushmeat è una rete di salvataggio e molto spesso l’unica fonte disponibile di proteine a basso costo. Non è una opzione, ma una dura necessità.

Secondo una stima del CIFOR (Center for International Forestry Research) del 2011, tra 1 milione e 3,4 milioni di tonnellate di carne selvatica viene prelevata ogni anno dalle foreste tropicali di quest’area. La conseguenza diretta e silenziosa è la defaunazione progressiva di questi habitat e cioè la diminuzione inarrestabile del numero di animali delle specie cacciate. L’Africa si sta svuotando dei suoi animali. Anche qui, come già accaduto nel sud est asiatico per motivi del tutto analoghi, c’è una malattia capace di stragi, sul lungo periodo: il quadro ecologico che 3o anni fa, con una espressione profetica, Kent Redford definì “foresta vuota”.

La defaunazione dovuta alla caccia, unita in legame indissolubile e fatale con la deforestazione, è un elemento chiave per comprendere come l’Africa, non meno dell’Asia, sia il contesto geografico del futuro, se parliamo di pandemie. Lo hanno scritto alcuni ricercatori su ForestNews, il magazine on line del CIFOR, usando come metro di paragone le intermittenti epidemie di Ebola: “Le foreste vuote, svuotate della loro naturale biodiversità da disturbi su larga scala come le attività estrattive, l’industria e l’agricoltura sono letteralmente scavate al loro interno dalla diffusa deforestazione e dal degrado del paesaggio. A nostro parere, quando specie che sono prede, specialmente i grandi mammiferi, vengono prelevati dalle forse attraverso la caccia l’equilibrio tra i patogeni e gli ospiti è alterato su un ordine di grandezza tale per cui i virus e i batteri che causano malattie possono saltare tra animali diversi e quindi anche sull’uomo”.

In un paper uscito su NATURE nel 2017 gli autori hanno studiato la correlazione tra la intermittente comparsa di Ebola in 27 località dell’Africa centrale e occidentale e la deforestazione. Dai dati, che tengono conto di dinamiche spazio-temporali, è emerso che “questa correlazione era fortissima quando le foreste erano molto vicine ai luoghi dell’epidemia, oltre l’83%, sia che si trattasse di foreste intatte che di foreste disturbate: fino a 3 volte maggiore”.

Deforestazione, e questa è una legge generale, vuol dire essenzialmente questo: cambiamenti nella composizione della copertura vegetale, e cioè tipi di piante e alberi, e delle specie animali che un tempo occupavano quel tratto di foresta. Meno numerosi, o costretti a modificare le loro abitudini di ricerca del cibo, questi animali potrebbero essere gli ospiti di patogeni pericolosi. La deforestazione, in poche parole, altera la naturale circolazione dei virus. E quindi aumenta la possibilità di contatto tra gli animali infettati ed esseri umani.

In qualunque foresta tropicale africana, i cacciatori sono intermediari con tutto ciò che sta in una foresta: agiscano come un mezzo di trasporto, facilitando relazioni ecologiche a volte consolidate da millenni, altre volte nuove e dalle implicazioni sconosciute.

Tra i ricercatori che studiano queste correlazioni ecologiche (e anche l’insorgenza di Ebola) c’è John Fa della Università di Manchester, che ha una vasta e consolidata esperienza di ricerca sul bushmeat nel bacino del Congo. Raggiunto via Skype nel suo studio, Fa spiega come le osservazioni di Elizabeth Maruma Mrema centrino il punto: “è la questione essenziale di questa crisi. Gli wet market sono solo una parte di questa storia, ma se consideriamo  l’Africa, e l’area del fiume Congo, la carne selvatica significa alimentazione e reddito dove enorme è la povertà. Anche in Africa c’è molta preoccupazione adesso, ma, d’altra parte, siccome parliamo di carne selvatica, c’è anche il rischio di un pregiudizio contro chi, nel continente africano, ricorre a carne non allevata. Non escludo che la dichiarazione della Mrema avesse anche questo sottinteso”.

In questi Paesi, con una crescita demografica del 2-4% anno, indiscutibili necessità alimentari e defaunazione vanno a braccetto: “Equilibrio è il concetto chiave per capire il legame tra bushmeat e defaunazione. La caccia è una funzione matematica in cui sono all’opera il prelievo di animali e il tipo di specie cacciate. Se chi caccia lo fa per consumare la carne senza venderla nei mercati del tipo di quelli che ci sono in Gabon e Ghana, ci sono più possibilità che il prelievo rimanga entro limiti accettabili”.

Nel 2016 Fa aveva partecipato ad uno studio pionieristico sulla carne selvatica nel bacino del Congo condotto dalla Goethe Universitaet di Frankfurt am Mein, pubblicato poi su BIOTROPICA. Nel 39% del Bacino del Congo la caccia è insostenibile. In ogni sito analizzato, anche ai confini delle aree protette, il prelievo di biomassa su base annua è compreso tra 25.657 e 23.538 chilogrammi. Per ogni chilometro quadrato ogni anno se ne vanno  tra i 92 chili e i 78,9 chili di carne. Le specie interessate sono tantissime: in media, tra 20 e 8,7 per ogni località presa in esame.

Ma è proprio qui che il legittimo allarme ecologico si infrange su una domanda di buon senso: esiste una alternativa? La risposta del CIFOR nel 2011, almeno teorica, in tempi non oberati da dibattiti a tema: per sostituire il bushmeat con la carne da allevamento, nel bacino del Congo, servono 25 milioni di acri di terra da pascolo.

In questi dilemmi trova corpo lo scetticismo di John Fa nei confronti degli appelli contro i mercati di carne selvatica.

Ad esempio quello del 7 aprile scorso, firmato da un centinaio di prestigiose ONG (pesi massimi della conservazione, come Panthera, Born Free, David Shepherd Foundation, Four Paws, Freeland, Great Ape Initiative e Panthera) pubblicato e condiviso dalla LION COALITION: “Non sono affatto d’accordo con questa proposta. Siamo sempre inclini a parlare delle malattie che hanno una origine selvatica, ma molto meno disposti a definire il pericolo di quelle che provengono dagli allevamenti intensivi – spiega Fa – C’è una questione più scottante, più consistente, oggi, che è quella dell’allevamento in cattività a scopo alimentare. E se consideriamo l’origine di questa stessa pandemia, non abbiamo ancora certezze assolute e dunque ciò che ci può aiutare davvero è una prospettiva di analisi corretta. Per questo ritengo più equilibrato e centrato il punto di vista del gruppo di ricercatori di Oxford, di cui fa parte Dan Challender, membro dello Specialist Group della IUCN per il pangolino. Questi colleghi hanno richiamato l’attenzione sul fatto che un bando totale sul commercio di specie selvatiche trascurerebbe la complessità di questo commercio”.

Challender ha co-firmato insieme a due colleghi, entrambi di Oxford, un editoriale apparso sul magazine The Conversation: “Il Covid-19 non dovrebbe essere usato in modo opportunistico per prescrivere politiche globali sul commercio di specie selvatiche. Una risposta più appropriata dovrebbe essere invece migliorare la regolamentazione del commercio con un focus sulla salute umana”.

Vincent Nijman, ora alla Oxford Brookes University, Regno Unito, uno dei massimi esperti del traffico illegale di specie selvatiche nel sud est asiatico, ritiene ad esempio che l’attuale quadro normativo della CITES, e cioè la convenzione internazionale sul commercio di 6000 specie animali e 30mila specie di piante, debba essere in questo momento un forte punto di riferimento: “Mentre CITES fornisce una cornice che deve  essere rispettata da ogni Paese aderente, ciascun Paese deve poi adottare la sua propria legislazione per assicurare che CITES sia implementata a livello nazionale. E mentre la trasmissione di un virus da un animale (che sia un pangolino o un piccolo pipistrello) ad un essere umano è molto probabile avvenga in uno wet market, non ci sono prove per supporre che questi passaggi abbiano avuto a che fare con il commercio internazionale. Se è stato un pangolino a causare tutto questo, un pangolino che veniva dalla Cina o da un Paese limitrofo, noi non lo sappiamo e non sappiamo quindi neppure in che misura questo potrebbe essere stata una violazione nelle norme sull’esportazione di una specie dentro un altro Paese”.

Per Nijman una soluzione, se pur parziale, sarebbe un bando selettivo sulle specie: “Credo che sarebbe una eccellente idea implementare innanzitutto ciò che già c’è. In Cina un gran numero di animali selvatici sono legamenti protetti perché rari, eppure vengono ancora venduti negli wet market. In secondo luogo, specie come i pangolini non possono essere commerciati internazionalmente, ma anche loro sono ancora in vendita. Un rafforzamento e un miglioramento di queste norme ridimensionerebbe parecchio questa situazione. Soprattutto, a mio parere, bisognerebbe assolutamente bandire il commercio delle specie che sappiamo essere vettori di certi tipi di malattie, come i pipistrelli, le genette e i piccoli carnivori. Sarebbe una gran cosa che accadesse in Cina, ma anche in ogni altro Paese”.

Secondo John Fa “è completamente irrealistico pensare di chiudere l’intero commercio di specie selvatiche. Dobbiamo invece guardare al sistema nella sua interezza e cioè considerare la parte che vi hanno le persone più indigenti, dove questo mercato avviene. In una crisi come questa corriamo due rischi: il primo è di assumere il punto di vista di una middle-class bianca, e il secondo è che questa stessa visuale sia percepita dalle popolazioni africane come un pregiudizio contro di loro. Si tratta, andando più a fondo, di un problema purtroppo ancora oggi intrinseco a parte del mondo della conservazione, e cioè che la protezione delle faune e degli ecosistemi debba sempre e comunque avvenire a dispetto delle persone, come se l’essere umano fosse un nemico. Ma la chiave per affrontare la questione è invece un approccio razionale, e cioè un modo sensato di usare le risorse animali. Non dobbiamo dimenticare che chi vive, ogni giorno, in una foresta tropicale africana ha una percezione fisica e mentale degli animali selvatici che è tutta una altra cosa dal diletto di coloro che conoscono quegli stessi animali in un safari, come turisti”.

Ad ogni livello cresce la necessità di impostare, in senso giuridico e culturale, una visione differente delle faune del Pianeta. La pandemia è quindi la punta di un iceberg che finalmente, diradata la nebbia del business as usual, è spuntata sul profilo dell’orizzonte. “Il problema principale in Africa oggi è l’urbanizzazione, che amplifica la domanda per beni di consumo e di carne selvatica. Ciò che abbiamo visto nella nostra ricerca sul bacino del Congo è che la pressione minore sugli animali coincide con i luoghi più difficili da raggiungere. I mammiferi sono le specie più vulnerabili: se hai soltanto una pallottola, spari ad un animale di grossa taglia per ottenere più carne e più soldi, se ne vendi una parte”, dice Fa. “E questo ci conduce anche allo schema culturale ed ecologico che sta dietro la crisi del bushmeat. In Africa, ma in qualunque altra parte del mondo: l’essere umano è un super predatore che tende a massimizzare le sue attività così come le sue intenzioni. Gli uomini puntano ad espandere la propria sfera di azione, ed è questo che porta ad una continua intensificazione di ogni disturbo ambientale”.

Sorgente: Così l’Africa si “mangia” la sua fauna selvatica. La prossima pandemia nascerà dal Continente Nero? – La Stampa – Ultime notizie di cronaca e news dall’Italia e dal mondo

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