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Nell’isola greca dei migranti sotto il ricatto di Erdogan, dove i bambini cercano il suicidio. Storie e drammi dal campo profughi che ormai qui chiamano “Giungla”

DAL NOSTRO INVIATO MARCO MENSURATI

LESBO – Sull’isola che affonda, i primi ad annegare sono i bambini. Qui per loro non c’è niente, nemmeno un letto, un bagno o la luce, qui per loro c’è solo fango, freddo e attesa, e un purgatorio umido e insensato nel quale impazzire. E così, giorno dopo giorno, a mano a mano che l’Europa e le sue promesse si allontanano dall’orizzonte, ai più fragili non resta altro da fare che tentare il suicidio.

Si tagliano i polsi se trovano una lametta o un coltello, oppure si buttano giù da qualche rialzo, un muretto, un ulivo; gli adolescenti provano a impiccarsi, i più piccoli cercano di spaccarsi la testa contro le rocce, ma siccome hanno paura raramente riescono ad andare fino in fondo. Ogni tanto un adulto bussa alla clinica da campo di Medici senza frontiere, proprio in fondo alla collina, portando in braccio un ragazzino con segni eloquenti. Tutti sanno cosa ha appena fatto. E anche che ci riproverà tra qualche mese.

LA GIUNGLA
L’isola che affonda è Lesbo, e il suo purgatorio è il campo profughi di Moria, quello che Erdogan minaccia di far esplodere come una bomba contro l’Europa, riempiendolo con i siriani in fuga dalle bombe di Idlib. Da qualche mese questo posto hanno preso a chiamarlo “the Jungle”, la Giungla. E poco importa che la vegetazione sia quanto di meno tropicale si possa immaginare, ci sono solo ulivi a perdita d’occhio. Perché il riferimento non è tanto alle piante quanto al groviglio di cavi elettrici, filo spinato e tende da campo che copre lo spazio di un paio di colline e nasconde l’umanità stremata e apatica di ventimila anime.
Alla Giungla si è arrivati per gradi.

In principio, nel 2015, quello di Moria era un campo profughi come molti altri, costruito in una ex base militare, protetto dal filo spinato, opportunamente attrezzato dall’Unchr e dal governo greco, poteva ospitare fino a 2.300 persone. Poi però i continui giri di vite normativi, e l’esasperante gioco politico del triangolo Bruxelles-Atene-Ankara, ha fatto aumentare a dismisura l’afflusso di migranti bloccando la loro redistribuzione nel continente. La popolazione del campo è dunque letteralmente esplosa, strabordando fuori dalle recinzioni al di là del filo spinato, lungo l’intera collina, per ettari e ettari, sfuggendo non solo alla gestione del governo greco, la cui presenza è ormai impercettibile, ma persino a quella delle Ong, che invece sono molto presenti.

GLI ACCOLTELLAMENTI
La prima legge di questa giungla è che è vietato entrarci. Bisogna avere un accredito, ma il governo da tempo non ne concede. Tantomeno ai giornalisti. Però nessuno controlla, e insomma, come tutto il resto, anche l’accesso è lasciato al caso. Il campo è diviso in tre grandi zone. Quella recintata – una specie di “prima classe”, dove ci sono le tende isotermiche dell’Unhcr e, tutto sommato, le condizioni di vita meno degradanti, si trovano i barbieri, i banchetti con la frutta e i semi di girasole tostati, i venditori di sigarette di contrabbando e la shisha da fumare (in un chiosco gestito da un iracheno). Una sorta di trionfo della capacità umana di resistere e sopravvivere: qualcuno ha pure costruito dei forni per cuocere il pane.

Poi c’è la zona appena fuori dalle recinzioni, gestita dai volontari di associazioni come Movement on the ground Refugee 4 Refugees, dove da qualche mese hanno montato i bagni (uno ogni cento persone circa) e persino installato un generatore per sostituire gli “spaghetti”, i cavi volanti abusivi e pericolosi con cui viene distribuita l’elettricità al migliaio di persone che ci abita: qui le condizioni di vita sono più basse rispetto al campo recintato. Ma sono sempre molto meglio rispetto alla Giungla vera e propria, dove manca tutto e dove vive la maggior parte dei 20mila dannati di Lesbo, tra questi circa settemila bambini.

IL NIENTE E I FANTASMI
I conflitti, in questa parte della Giungla, sono inevitabili. Come i reati, stupri, rapine, risse. “Solamente da gennaio ad oggi ci sono stati quattro episodi di accoltellamento”, spiega Astrid Castelein, responsabile di Unhcr. A innescarli è la mancanza di risorse. Per il cibo occorre attraversare l’intero campo e mettersi in fila alla food line, una coda interminabile che di fatto occupa l’intera giornata degli ospiti del campo. Le abitazioni, per lo più delle semplici tende da campeggio economiche e non impermeabili e per questo coperte da teli di plastica che non fanno passare l’aria, non hanno nessuna forma di riscaldamento. E anche l’acqua manca del tutto, come i servizi igienici. Il vero combustibile della violenza è l’affollamento, la promiscuità, la varietà di etnie e culture, e la disperazione dell’attesa. Accessi di rabbia sono all’ordine del giorno. E per i bambini vige una sorta di coprifuoco. I genitori non li fanno uscire dalle tende con il buio, nemmeno per andare in bagno.

Di giorno la situazione cambia poco. I movimenti per i più piccoli sono comunque ridotti. Qualcuno frequenta la scuola ufficiale del campo recintato, quella circondata dal filo spinato, qualcun altro partecipa alle lezioni che si tengono nelle strutture spontanee gestite come capita dalle varie comunità (la prima è quella afgana, la seconda quella siriana, la terza la congolese) ma i più non fanno niente. Ed è proprio questo niente a devastare psicologicamente i bambini, a divorare il loro tempo, a trasformarli in tanti piccoli fantasmi dallo sguardo vuoto.

“Parliamo di persone fragili – spiega Marco Sandrone, di Medici senza frontiere – che arrivano qui già traumatizzate dalla guerra da cui scappano e dal viaggio durante il quale hanno spesso subito violenze di ogni genere. Dopo pochi mesi nel campo trascorsi in attesa dell’esito di un procedimento burocratico che non possono capire, perché non lo capiscono nemmeno i loro genitori, finiscono preda di forme croniche e profonde di depressione che le spingono ad atti autolesionistici”.

IL DRAMMA DELLE FAMIGLIE
In questo purgatorio non stanno annegando solamente i bambini, ma anche le loro famiglie, devastate dalla consapevolezza di ciò che sta accadendo e dalla conseguente, inesorabile, sensazione di fallimento. Una piccola porzione di giungla a pochi metri dalla recinzione sembra leggermente più decorosa della media. Una minuscola comunità di afgani si è raccolta con le tende tutta intorno a una specie di piazzola ghiaiosa. Al centro, dentro un bidone brucia qualcosa che fa un fumo nero piuttosto sinistro. Sottovento, alcuni ragazzini giocano con le biglie di vetro. Sono abbastanza impegnati da non sentire il cattivo odore del fumo. Una donna velata li guarda: “Non so più nemmeno da quanto tempo siamo in questo campo. E non so più nemmeno che cosa stiamo aspettando – spiega -. Quello che so è che il tempo passa, loro crescono e io il futuro non riesco più nemmeno a immaginarmelo”.

 

Sorgente: I dannati di Lesbo | Rep

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