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Ospedali, come il marchio di eccellenza Irccs può ingannare il paziente | La mappa

Sono loro ad aver isolato il Coronavirus: il team dello Spallanzani di Roma. Già nei primi anni 2000 il Ministero lo ha identificato come polo nazionale contro il bioterrorismo e specializzato nel trattamento delle malattie infettive più problematiche, dalla Sars alla Mers. L’ospedale ha 110 ricercatori che hanno prodotto 150 pubblicazioni di rilevanza scientifica nel 2019, e 4 lavori corposi negli ultimi tre anni. È dal 1996 riconosciuto dal Ministero della Salute come Irccs, che sta per «Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico». Un riconoscimento prestigioso, perché quando un ospedale può fregiarsi di questo titolo vuol dire che garantisce le cure migliori e più innovative proprio perché ricerca e assistenza viaggiano insieme. Detto con una metafora: è come per un ristorante incassare la stella Michelin. Per questa ragione molte strutture premono per aggiudicarsi quel «marchio d’eccellenza» che oltre ai fondi pubblici attrae 800 mila pazienti ogni anno. Non sempre però le promesse che accompagnano l’assegnazione del titolo di Irccs corrispondono alla realtà, con conseguente inganno ai pazienti.

Cosa dice la legge

L’ultimo decreto legislativo che disciplina la materia è il numero 288 del 16 ottobre 2003, ed è molto chiaro: «Gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico sono enti a rilevanza nazionale che, secondo standard di eccellenza, perseguono finalità di ricerca, prevalentemente clinica e traslazionale (cioè converte promettenti scoperte di laboratorio in applicazioni cliniche, ndr), nel campo biomedico e in quello dell’organizzazione e gestione dei servizi sanitari, unitamente a prestazioni di ricovero e cura di alta specialità». Lo Stato incentiva la loro missione elargendo fondi pubblici extra: 164 milioni nel 2019. Oggi abbiamo 51 Irccs: 21 sono strutture pubbliche e 30 private in convenzione. Il loro rendimento viene misurato dal ministero della Salute con 25 indicatori di performance, tra i quali la presenza di ricercatori che pubblicano regolarmente, il numero di pubblicazioni e loro importanza scientifica (impact factor), la capacità di attrarre finanziamenti esteri (come indice di competitività internazionale), numero di pazienti coinvolti in sperimentazioni cliniche. I finanziamenti vengono distribuiti in modo proporzionale sulla base dei risultati ottenuti nella disciplina per cui è stato conferito il titolo.

Irccs a confronto

Lo Spallanzani di Roma dicevamo è un’eccellenza indiscussa, e infatti lo scorso anno ha pure ottenuto 1 milione di euro di finanziamenti Ue. Ma nella stesso ambito di specializzazione — che sono le malattie infettive — ha il marchio d’eccellenza anche il Negrar di Verona: 10 ricercatori e 10 pubblicazioni nello stesso periodo di tempo. Ovvero un decimo del personale dedicato e della produttività. Al netto dello stipendio dei ricercatori che in ogni caso è da fame (circa 1.500 euro al mese) e delle loro capacità personali, il rapporto tra i finanziamenti pubblici ricevuti e il numero di ricercatori permette di avere un indicatore significativo: quanto spende lo Stato per sostenere la ricerca dell’uno e dell’altro? Per il topo da laboratorio dello Spallanzani 29 mila euro, per quello del Negrar 70.000.

Per l’oncologia c’è l’Istituto dei tumori di Milano: 310 ricercatori con almeno 4 lavori nell’ultimo triennio, punteggio altissimo per l’importanza delle pubblicazioni (impact factor di 2.450 punti), 1.600 pazienti coinvolti nelle sperimentazioni cliniche, 1 milione di finanziamenti internazionali. Risultati simili anche per lo Ieo fondato da Umberto Veronesi. Eppure la stelletta ce l’ha anche il Crob di Rionero in Vulture (Potenza): meno di 40 ricercatori, pochi pazienti coinvolti nelle cure innovative (20), produzione scientifica con un impact factor dieci volte inferiore (200 punti), capacità di attrarre finanziamenti esteri zero. Per lo Stato l’attività del ricercatore dell’Istituto dei Tumori vale 24 mila euro, quella del Crob 37.500.
Per la neurologia non c’è confronto tra il molto produttivo Besta di Milano e il Neurolesi di Messina. Duecento ricercatori il primo, con 320 pubblicazioni, equivalenti ad un impact factor di 1.300, contro 1/5 dei ricercatori (40), la metà delle pubblicazioni (130) per 300 di impact factor, del secondo. Alle casse dello Stato un ricercatore del Besta costa 16.500 euro, 32.500 quello del Neurolesi.
Irccs con attività scarsa: 17

L’elenco è lungo, ma alla fine, dei 51 Irccs, almeno 17 hanno una produttività scientifica irrilevante e un’attività clinica scarsa, altrettanti non ricevono nessun finanziamento Ue, 4 non hanno pazienti reclutati in sperimentazioni cliniche. Di questi 17, gli ospedali privati sono 10, e 7 quelli pubblici. Questo avviene perché la legge pur richiedendo «caratteri di eccellenza del livello delle prestazioni e dell’attività sanitaria svolta negli ultimi tre anni» e «caratteri di eccellenza della attività di ricerca svolta nell’ultimo triennio relativamente alla specifica disciplina assegnata» (art. 13 del Decreto legislativo 288 del 16 ottobre 2003), non fissa alcun standard minimo. Così il riconoscimento — che parte da una richiesta della Regione di riferimento, e finisce con un decreto del ministero della Salute, dopo la valutazione di una commissione d’esperti — avviene spesso per accontentare questa o quella Regione o il peso politico di lobby ospedaliere.

Perché le eccellenze non crescono

Risultato: il numero degli Irccs cresce (nel 2000 erano 35 con un finanziamento di 175 milioni), ne entrano di nuovi, e siccome è sufficiente barcamenarsi, di fatto «l’onoreficenza» non viene mai tolta a nessuno. I soldi pubblici invece sono sempre gli stessi (con tendenza a diminuire), e dovendoli spartire fra un numero crescente di ospedali, le quote si assottigliano sempre di più.

Certo, i finanziamenti vengono distribuiti proporzionalmente in base ai risultati ottenuti, ma l’enorme frammentazione alla fine penalizza chi ha tutti i numeri per crescere nell’eccellenza, e portare a termine le ricerche di lungo periodo. In altre parole: va a scapito dei nostri migliori cervelli, sulla cui formazione abbiamo investito risorse e che, alla fine, per mancanza di prospettive, sono costretti ad andarsene e a far fruttare altrove le competenza acquisite.

Sorgente: corriere.it
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