Coronavirus, La ricerca d’eccellenza in trincea. Spallanzani: “Per noi dallo Stato solo briciole” | Rep
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Il direttore dell’istituto romano: “Andiamo avanti grazie ai bandi europei. Ma con i nostri standard se fossimo in Germania avremmo risorse per 4 volte tanto”di CORRADO ZUNINO
ROMA – La larga struttura a due piani chiamata Lazzaro Spallanzani, ricercatore non precario vissuto nel Settecento e considerato un pioniere scientifico della fecondazione artificiale, dovrebbe campare — oggi — con 3,5 milioni di euro di Stato. Oggi, sì, sotto la direzione scientifica di Giuseppe Ippolito, 66 anni, biomedico e infettivologo, l’ospedale Spallanzani muove settecento dipendenti di cui 400 medici, infermieri e sanitari. La struttura, da sempre insediata nella prima periferia romana, ha la metà dei posti letto dei tempi della fondazione, era il 1936, ha attraversato recenti e pesanti ristrutturazioni, ma nel febbraio 2020 può ricoverare contemporaneamente 152 degenti e custodire uno dei due laboratori italiani di livello di biosicurezza 4, il massimo previsto, cinque laboratori di livello 3 e una banca criogenica che può ospitare fino a venti contenitori di azoto liquido da mantenere a -80° centigradi.
Lo Spallanzani, con i suoi direttori, i suoi medici e i suoi ricercatori spesso precari via via si è preso le patenti più prestigiose e responsabilizzanti: Polo di riferimento nazionale per l’Ebola, Polo di riferimento per il bioterrorismo, Polo per la Sindrome respiratoria Sars. Per continuità, nel 2020 è diventato Polo di riferimento per il coronavirus.
Bene, certificati e macchine l’amministrazione dovrebbe mantenerli lucidi con 3.541.840 euro l’anno. Poca roba. Questa è l’aliquota che nel 2018 (ultimo dato) è spettata allo Spallanzani di Via Portuense all’interno del finanziamento generale degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. Per tutti e 51 gli Irccs (ventuno pubblici e trenta privati) il ministero della Salute ha trovato 159 milioni. «I tre milioni e mezzo sono l’unico finanziamento di Stato che riceviamo», spiega Ippolito, «se dipendesse da queste risorse non potremmo fare ricerca né scoperte». L’Inmi Spallanzani non potrebbe isolare virus letali. «Utilizziamo metodi classici da un punto di vista diagnostico e terapeutico, metodi sempre più in disuso perché costosi». I risultati, tuttavia, sembrano valere l’investimento.
Lo Spallanzani vive un momento felice anche su un piano economico: la “quota Irccs” ricevuta nel 2018 è la più generosa degli ultimi vent’anni. Solo nel 2008 l’Istituto trattenne un finanziamento ministeriale paragonabile, per il resto è sempre stato inferiore. Nel 2005 anche di un terzo. La capacità di alzare il premio in queste stagioni è dipesa dalla produttività dell’ospedale, dal cosiddetto “fattore d’impatto”, ovvero il numero di citazioni sulle riviste scientifiche accreditate. Per molti degli altri istituti a carattere scientifico del settore medico non è andata così: gli assegni sono diminuiti per quasi tutti, Istituto per la cura dei tumori di Milano, Policlinico San Matteo di Pavia, pediatrico Gaslini di Genova. Un esempio chiarisce. Nel 1998 i centri riconosciuti nel novero Irccs erano 32, diciannove in meno rispetto ad oggi. La torta, però, era la stessa: 159 milioni. Di più, ci sono state annate ben più grasse per il finanziamento della ricerca medica. Nel 2002 c’erano 26 milioni in più nel budget erogato dal ministero. Nel 2008 quarantuno milioni in più. Nel 2012, con il Paese dentro una profonda crisi economica, ancora 13 milioni in più. Il taglio dell’ultimo decennio è entrato con pesantezza nei laboratori di strutture di prim’ordine. Il Gaslini di Genova, dicevamo, ha perso tre milioni su sette.
«Se ci trasferissimo domani in Germania, riceveremmo risorse pubbliche quattro volte più grandi», riassume sempre il professor Ippolito, il suo Spallanzani come esempio. Ma la questione, si è visto, è generale. Tocca anche università ed Enti di ricerca non medici. Il nostro Paese, investendo in ricerca l’1,32 per cento del Pil (che è la metà della media dei Paesi più industrializzati), non riesce a colmare una distanza di sapere e di brevetti ormai storicizzata. «Noi viviamo», chiude il direttore scientifico dello Spallanzani, «grazie all’ampia rete di rapporti e finanziamenti europei costruita negli ultimi vent’anni». E grazie ai finanziamenti speciali attivati da queste emergenze. Gli istituti di ricerca sul cancro e per le malattie rare, per salvarsi, devono invece affidarsi alle charities, le donazioni.