0 5 minuti 4 anni

Le delegazioni di Usa e Talebani a Doha firmano un primo accordo: americani e alleati smobilitano le truppe, gli integralisti garantiscono che il Paese non diventi base di attacchi terroristici

di GIAMPAOLO CADALANU

Pace. La parola è stata pronunciata talmente tante volte, riferita all’Afghanistan, che si fa fatica a concepire qualcosa di reale. Le delegazioni di Stati Uniti e Talebani, guidate dall’inviato della Casa Bianca Zalmay Khalilzad e dal mullah Baradar hanno firmato a Doha un primo accordo, a oltre 18 anni dall’intervento americano dopo gli attentati dell’11 settembre. Il portavoce degli “studenti coranici” ha comunicato che ogni combattente deve fermare le azioni militari.

L’ambasciata Usa a Kabul parla di “giornata grandiosa per l’Afghanistan”. E persino i due rivali che si contendono la presidenza a Kabul – il capo dello Stato uscente Ashraf Ghani e il suo premier Abdullah Abdullah – sembrano disposti a dar retta alla richiesta di Donald Trump e mettere da parte il duello per unirsi alle trattative, in vista di una possibile nuova divisione del potere che comprenda inevitabilmente anche i Talebani, pronti, almeno in apparenza, a lasciare la lotta armata per unirsi allo sforzo comune per la ricostruzione.

Stati Uniti e integralisti hanno concordato due condizioni di base: Washington ritirerà le sue truppe e quelle alleate dall’Afghanistan entro 14 mesi. Entro 135 giorni la presenza americana sarà ridotta a 8600 uomini. I Talebani si impegnano a non permettere che il Paese possa ospitare organizzazioni terroristiche decise a pianificare attentati all’estero. Il mullah Baradar ha ribadito che per l’Afghanistan vuole “un regime islamico” e ha chiamato “tutte le fazioni” a partecipare allo sviluppo di un sistema islamico.

In apparenza, è la base necessaria per poi portare avanti i negoziati, coinvolgendo il governo di Kabul. Ma è ben evidente che la capacità contrattuale di quest’ultimo risulta menomata, a dir poco, se dal contesto scompare la possibile tutela militare dell’Occidente. E non è per nulla chiaro che cosa poi significherà nella pratica “un sistema islamico”. In più, la firma degli Usa – che sarebbe stata apposta solo da Khalilzad, per scelta del segretario di Stato Mike Pompeo – di fatto realizza un riconoscimento formale di quello che Baradar ha definito “Emirato islamico dell’Afghanistan”: si apre la strada per una doppia rivalità, con una nuova entità che si affianca ai due aspiranti presidenti, già in lotta fra loro.

Pompeo si impegna a “controllare” che i Talebani rispettino gli impegni, che interrompagno ogni rapporto con Al Qaeda, che rispettino i passi avanti fatti nel trattamento delle donne. Ma è lecito chiedersi quanto valga questa “sorveglianza”. L’uso della forza, a questo punto, diventa un’opzione più difficile per il governo riconosciuto, che può contare sulle sue truppe ma farà soprattutto affidamento sulla stanchezza diffusa per i quasi due decenni di combattimenti. E’ fin troppo facile prevedere che, anche nella migliore delle ipotesi, dopo la firma le “scosse di assestamento” saranno forti.

Ma il sogno di un Afghanistan in pace resta. Generazioni intere sono cresciute senza nemmeno capire con precisione che cosa vuol dire “pace”. E anche i più anziani conservano infinite memorie di conflitto, dall’invasione sovietica alla guerra civile. Quando le armi hanno taciuto, è stato per periodi brevi. O magari hanno lasciato spazio agli abusi, ai tempi del mullah Omar. Silenziosi i kalashnikov, parlava lo scudiscio della “Polizia per la repressione del vizio e la tutela della virtù”, che puniva a frustate le donne vestite in maniera “immodesta”. I Talebani, almeno in apparenza, sono pronti ad adottare visioni più tolleranti, ma fra le donne afgane la preoccupazione è ancora forte.

Nelle prossime ore conosceremo i dettagli e le reazioni del primo accordo. Per ora, va registrata solo la speranza. Domani è un anniversario significativo: il 1 marzo del 2001 i Talebani davano concretezza alla “dichiarazione di guerra” contro il mondo, avviando la distruzione dei Buddha di Bamyan, patrimonio dell’umanità nella lista dell’Unesco e simbolo della convivenza fra fedi diverse. L’Afghanistan merita che nei libri di Storia entri una nuova data, e che il capitolo della sofferenza finalmente sia chiuso.

Sorgente: Afghanistan, un passo verso la pace – la Repubblica

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20