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Per attaccare magistrati e giornalisti che indagano o raccontano le inchieste sulla sua fondazione, l’ex premier in Senato ha citato Craxi (morto latitante con condanne definitive per tangenti) e poi lo scandalo Lockheed: “Per distruggere la reputazione di un uomo può bastare una copertina di un settimanale”, ha sostenuto il leader di Italia Viva. Ma l’allora presidente della Repubblica si dimise per un’inchiesta dell’Espresso che non aveva nulla a che vedere con quel caso: si trattava di un’inchiesta sull’acquisto di una villa costata più di quanto dichiarato nei redditi dell’intera famiglia Leone

di Giuseppe Pipitone

Un politico costretto a dimettersi dopo le inchieste di un giornale. Oggetto degli articoli: l’enorme discrepanza tra i redditi dichiarati e le spese sostenute per una residenza da nababbo. No, non c’entrano niente Matteo Renzi e la villa acquistata grazie a un prestito da 700mila euro di uno dei finanziatori di Open, che lo stesso governo del Pd aveva nominato in Cassa depositi e prestiti. O meglio: l’ex premier è intervenuto in Senato proprio per attaccare i magistrati e le inchieste sull’attività della fondazione che ha fatto da cassaforte alla sua ascesa politica. E ha riservato qualche colpo basso anche ai giornali, che hanno riferito di quell’indagine: “Per distruggere la reputazione di un uomo può bastare la copertina di qualche settimanale”, ha detto riferendosi all’Espresso, autore dello scoop sul prestito (poi restituito) usato dall’ex segretario del Pd per acquistare la sua nuova dimora a Firenze.

Giovanni Leone

Pur di attaccare i giornali il leader di Italia Viva è tornato indietro di 40 anni. “Nel ’77 il presidente Moro alla Camera utilizzò parole notevoli nei confronti di altre forze politiche e di chi voleva processare nelle piazze il suo partito. Le ripetiamo e ce le diciamo. Andò così? Impariamo dalla storia”, ha sostenuto Renzi. Dimostrando poco dopo esattamente il contrario, quando è arrivato a scomodare lo scandalo Lockheed e le successive dimissioni di Giovanni Leone. “La vicenda Lockheed ha segnato per la conseguenza più alta, le dimissioni di Giovanni Leone dal Quirinale non perché coinvolto ma per uno scandalo montato ad arte dai media e parte della politica. Per distruggere la reputazione di un uomo può bastare una copertina di un settimanale. Peraltro, i tempi cambiano ma il settimanale rimane… ”. Il giornale citato è sempre lo stesso: l’Espresso. È davvero andata così? Leone si dimise a causa dello scandalo Lockheed, montato ad arte dal settimanale fondato da Eugenio Scalfari? Assolutamente no. E a ricordarlo a Renzi è stato uno degli autori di quegli articoli su Leone.

Primo Di Nicola

Il leader di Italia Viva, infatti, è sfortunato. Perché a Palazzo Madama siede anche Primo Di Nicola, oggi senatore del M5s che nel 1978 era un giovane collaboratore dell’Espresso. “La storia degli scandali – ha detto il giornalista e senatore- va raccontata nella maniera giusta e voglio ricordare per fare giustizia alle persone che non ci sono più che non è vero che il presidente della Repubblica Leone fu costretto a lasciare il Quirinale in ragione di uno scandalo montato ad arte dai media in relazione al caso Lockheed. Voglio dire al senatore Renzi che Leone fu costretto a dimettersi per richiesta del suo partito non per le mazzette del caso Lockheed ma per le inchieste fatte da l’Espresso che documentarono che le sue dichiarazioni dei redditi non giustificavano le spese avute nel frattempo“. Lo scandalo Lockheed prende nome da un’azienda americana produttrice di aerei, che nel 1976 rivelò a una commissione del Senato Usa di aver corrotto politici di Paesi diversi. Compreso l’Italia che dalla Lockheed aveva comprato 14 aerei C-130. Secondo il Senato Usa le tangenti ai politici italiani vennero pagate nel 1968, anno in cui a Palazzo Chigi si alternarono due presidenti del consiglio: Mariano Rumor e – appunto – Leone.

I sospetti sul presidente della Repubblica erano legati soprattutto a due elementi: l’amicizia stretta tra la famiglia Leone e i fratelli Lefebvre, mediatori della vendita degli aerei. E poi il “cifrario” con la chiave per decriptare i messaggi in codice che la società consegnò al Senato americano. Nei messaggi compariva che alcune mazzette erano state pagate a tale “Antelope Cobbler“, cioè antilope ciabattina, parole che significavano rispettivamente “Italia” e “primo ministro“. Quale primo ministro? Rumor o Leone? Qualcuno ipotizzò che per un errore di trascrizione l’originario messaggio “Antelope Gobbler” divenne Cobbler: e dunque le tangenti non erano per l’antilope ciabattina ma per il mangiatore di antilopi, cioè appunto Leone. Rimasto comunque esterno alle indagini. Per lo scandalo Loockheed vennero alla fine condannati Mario Tanassi, più volte ministro con lo Psdi, il suo segretario, i fratelli Lefebvre e il presidente di Finmeccanica.

Leone non finì mai sotto inchiesta ma si dimise il 15 giugno del 1978, sei mesi prima della naturale scadenza del suo mandato, per un’altra storia, cioè quella ricordata da Di Nicola. Parallelamente allo scandalo Lockheed e al noto libro di Camilla Cederna sulla famiglia Leone (querelata dai figli del presidente e condannata per diffamazione), esplose un altro caso sul capo dello Stato: un’inchiesta dell’Espresso svelò le dichiarazioni dei redditi di Leone a partire dal 1973 (all’epoca quelle dei politici erano segrete) e le paragonò alle spese affrontate nello stesso periodo dal presidente, scoprendo che queste ultime erano molto superiori alle prime. L’articolo decisivo per le dimissioni del presidente uscì la seconda settimana di giugno del 1978 ed era titolato: “Dossier Leone/Lui e le tasse: 8.564.000!” Nel catenaccio invece si leggeva: “Questa la cifra (stiamo parlando di lire ovviamente, ndr) del reddito dichiarato per il 1973, quando già da due anni era presidente della Repubblica. E intanto, a Le Rughe, a pochi chilometri da Roma…”.

Le Rughe era la villa che il presidente aveva acquistato e restaurato fuori dalla Capitale. “Tutto questo ha avuto un costo. Sulla base delle stime fatte dagli architetti è pensabile che il solo casale rammodernato, tra prezzo d’acquisto e lavori successivamente eseguiti non sia costato meno di un miliardo (di lire). Il valore del terreno circostante può essere calcolato intorno ai 400 milioni: i lavori di sistemazione e di arricchimento dell’ambiente possono essere stimati tra i 200 e i 300 milioni. Con i quadri, i mobili d’antiquariato, le spese di arredamento, l’argenteria e le spese di manutenzione, l’intera villa può essere valutata come un’impresa capace di inghiottire, per essere portata, come è stata portata, a compimento, circa 3 miliardi. Facciamo un taglio generoso: supponiamo che sia costata soltanto 2 miliardi, in quegli anni Giovanni Leone denunciava 9 milioni di reddito (oltre alla pensione della cassa degli avvocati) e suo figlio Mauro, intestatario della villa, ne denunciava 7“, scrivevano i giornalisti Gianluigi Melega e Primo Di Nicola chiedendo al presidente di “dire dove ha trovato i denari per pagarsi Le Rughe“.

Leone non rispose mai e pochi giorni dopo, su espressa richiesta dei segretari del Pci e della Dc, Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini, si dimise. Nè l’Espresso, né Melega e neanche Di Nicola furono querelati per quella vicenda. E oggi l’attuale senatore del M5s ha chiesto conto a Renzi delle inesattezze delle sue citazioni: “Io voglio rendere omaggio al senatore Leone senza scusarlo e non condivido le scuse partite una decina di anni fa in quest’Aula”, ha detto Di Nicola facendo cenno al pubblico perdono chiesto da Marco Pannella e Emma Bonino nel 1998, nel giorno del novantesimo compleanno di Leone: all’epoca infatti i radicali scendevano in piazza invocando il passo indietro del presidente, agitando centinaia di copertine dell’Espresso. “Leone si dimise – ha detto il senatore e giornalista – E so che risulta strano, c’era nella Prima Repubblica chi si dimetteva per una questione di dichiarazione dei redditi, mentre qui abbiamo avuto inquisiti condannati che hanno saccheggiato le istituzioni e voi ancora li difendete”.

Un riferimento all’altra citazione storica fatta da Renzi. L’ex premier non è in alcun modo indagato (lo sono i suoi fedelissimi Alberto Bianchi e Marco Carrai) ma per difendere i finanziatori della sua ex cassaforte, perquisiti dalla Guardia di Finanza alcune settimane fa, ha deciso di appellarsi addirittura a Bettino Craxi. “Non voglio aprire un dibattito sulla figura politica di Craxi, ma il 3 luglio del ’92 pronunciò un discorso molto citato e poco letto, chiamò in causa tutto l’arco costituzionale e disse che larga parte del finanziamento ai partiti era illecito o irregolare. In quel discorso Craxi disse: ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Di questo discutiamo, non di finanziamento illecito ma di debolezza della politica“.

Bettino Craxi

Per la verità, nel discorso citato da Renzi, Craxi parla proprio di finanziamento illecito. Si tratta forse dell’inizio della fine della Prima Repubblica: nell’estate del 1992 l’inchiesta Mani Pulite della procura di Milano era ormai deflagrata, Tangentopoli stava colpendo tutti o quasi i partiti sulla scena in Italia dal Dopoguerra. A cominciare dal Partito socialista. Craxi comparì in Parlamento e in pratica ammise quello che sapevano tutti: le forze politiche si tenevano in piedi grazie a un collaudato e gigantesco sistema di mazzette. “I partiti – disse il leader del Psi – specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

Nessuno si alzò per manifestare la propria innocenza: il sistema era davvero criminale come aveva ipotizzato provocatoriamente Craxi. Che per evitare di finire agli arresti scappò in Tunisia, dove morì da latitante con due condanne definitive a dieci anni in totale, più altre in primo e secondo grado, per circa 15 anni. Tutto questo, però, Renzi non lo ha ricordato in Senato. Dove il suo partito, per costituire un gruppo parlamentare, si è dovuto unire al Partito socialista di Riccardo Nencini. Sarà per questo che per difendere la sua fondazione, il senatore di Scandicci esponente del gruppo Italia Viva-Psi, ha deciso di citare Craxi. È il senso per la storia di Matteo Renzi. Che evidentemente non deve essere scaramantico.

Twitter: @pipitone87

Sorgente: Renzi e le citazioni storiche: sbaglia la ricostruzione del caso Leone (sbugiardato da un senatore). E reinterpreta il discorso di Craxi del ’92 – Il Fatto Quotidiano

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