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In testa ai cortei si sperimentano pratiche di autodifesa e si diffondono nuovi saperi resistenti. «Alcuni ci proteggono con gli scudi, altri spegnono i lacrimogeni, altri ancora lanciano pietre contro i carabineros. Abbiamo imparato a organizzarci per necessità»

di Olivia Carmona

Davanti alle manifestazioni popolari che vanno avanti da più di un mese in tutto il Paese, il governo cileno di Sebastián Piñera continua a non dare risposte effettive sul piano economico e, anzi, rafforza la repressione grazie a misure che vogliono criminalizzare la protesta.

Il 7 novembre il presidente ha annunciato che quello stesso giorno in Senato si sarebbe discusso il progetto di legge antiencapuchados. Nelle parole pronunciate dal presidente del Cile il 7 novembre scorso, si tratta di: «una mozione che cerca di sanzionare con maggior rigore il delitto di ordine pubblico quando chi lo commette lo fa occultando il volto dietro un passamontagna o qualsiasi altro strumento per non permettere il riconoscimento della sua identità».

Il 28 novembre la legge è stata approvata al Senato e adesso sta aspettando solo di essere confermata dalla commissione di Sicurezza. Con questa legge chi si copre il volto durante le manifestazioni, rischia il carcere per un periodo che va dai 541 giorni ai 3 anni e 1 giorno.

Nei centri delle grandi città come Santiago la maggior parte della gente, manifestanti e non, cammina sempre con un fazzoletto per coprirsi la bocca perché i fumi dei lacrimogeni si diffondono ovunque. Nonostante ciò, questa legge cerca di colpire soprattutto i ragazzi e le ragazze che durante le manifestazioni si posizionano in prima linea negli scontri, gli encapuchados.

«Noi della prima linea esistiamo perché esiste la repressione – racconta Gustavo di 29 anni, barista e contrabassista – Noi stiamo in prima fila per resistere contro la repressione che ci tocca vivere durante le manifestazioni. Siamo in tanti e sebbene non rispondiamo a nessuna bandiera politica, da quando siamo insieme abbiamo iniziato a organizzarci come autonomi, ma qua, direttamente in strada».

«La differenza in confronto al passato è che noi non abbiamo paura – racconta la voce di Andrés, sociologo di 31 anni, dietro la sua capucha – La dittatura l’abbiamo studiata ma non vissuta. Questa legge vuole criminalizzarci, ci vuole accussare di essere violenti, ma la vera violenza in questo paese è quotidiana e si manifesta in vari modi: è economica, perché in Cile esiste disuguaglianza; è culturale perché lo stato non garantisce educazione gratuita e di qualità; è anche fisica perché dal 18 ottobre ci stanno uccidendo, ci strappano gli occhi e ci fanno scomparire».

In Cile la sanità e l’istruzione, soprattutto quella universitaria, sono private. Non è raro che ragazzi di 25 anni che hanno appena finito gli studi, abbiano già un debito che si aggira intorno ai 20mila euro, senza considerare gli interessi che possono aumentare negli anni fino ad arrivare anche ad una cifra complessiva di  70mila euro. A tutto questo si somma un costo della vita molto simile all’Italia, nonostante lo stipendio minimo sia di 345 euro.

«Quando non riesci ad arrivare a fine mese, quando lo stato non ti garantisce una buona istruzione o un tetto decente, non hai più paura di niente – continua Gustavo – e scendere in piazza a manifestare e proteggere il resto dei manifestanti è l’unica cosa che ti rimane».

Secondo i due giovani ci sono differenze con il passato anche per quanto riguarda la prima linea: «Adesso molta più gente è disposta a mettersi in prima linea perché è l’unico modo per difenderci – continua Andrés – Così come spontaneamente è nata la protesta, anche noi ci siamo organizzati orizzontalmente e in modo spontaneo. Prima del 18 ottobre andavamo allo scontro disorganizzati e pieni di rabbia. Adesso la rabbia continua ma tutti abbiamo imparato a muoverci quando siamo in prima linea: alcuni si occupano di proteggerci con gli scudi, altri di spegnere i lacrimogeni e altri ancora di lanciare pietre contro i carabineros per impedirgli di spararci direttamente in faccia. Abbiamo imparato a organizzarci per necessità».

In prima fila ci stanno in tanti e in modi diversi. Marino del Canto, ingegnere agronomo di 66 anni, è un osservatore di diritti umani. Marino non esce mai di casa senza il suo casco, la maschera anti gas, gli occhiali antibalistica, la carta d’identità, il cellulare con una buona camera fotografica e le credenziali da mostrare alle forze statali. Il compito di Marino e dei suoi colleghi è osservare le azioni che durante le manifestazioni lo Stato compie contro i civili.

«Noi dobbiamo osservare il comportamento della polizia e dei militari, prendere nota delle patenti dei mezzi che usano, se portano i numeri di identificazione e soprattutto se il loro agire è conforme con i protocolli internazionali quando reprimono», cosa che, a detta di Marino, non succede sempre. Spesso sparano senza motivo e da molto vicino, cosí com’è stato riportato anche dalle indagini di Human Rights Watch.

«Tra i nostri compiti c’è anche quello di rilevare i dati delle persone ferite e aiutare i volontari della salute a curare le urgenze quando possibile. Una volta ottenuti i dati personali dei feriti o dei detenuti, se abbiamo il loro consenso, li mandiamo alla Commissione Nazionale di Diritti Umani e allo studio giuridico dell’Università di Santiago per fare le rispettive denunce», aggiunge l’uomo.

Chiunque puó diventare osservatore dei diritti umani in questo momento in Cile, nel gruppo di Marino ci sono persone di tutte le età e di varie professioni. Sono tutti volontari e giornalmente rischiano di rimanere feriti o di essere arrestati. «Io sono qui per coscienza, per morale e per giustizia – afferma Marino – non posso non fare niente davanti all’abuso di potere di un essere umano verso un altro o dello Stato contro il suo popolo».

Marino, Gustavo e Andrés sono solo 3 dei milioni di protagonisti del “risveglio cileno” che, nonostante la paura delle ripercussioni fisiche e psicologiche, hanno deciso di scendere in piazza per manifestare la loro rabbia contro un sistema disuguale, dove la vera violenza si vive tutti i giorni dell’anno. Da quando un minore ha bisogno di andare a scuola per assicurarsi almeno un pasto al giorno a quando l’unica arma contro i fucili e i carri armati è l’organizzazione e l’unità sotto la bandiera della costruzione di un Paese più equo.

Il popolo cileno da più di un mese ha segnato un punto di non ritorno per questo paese e per l’America Latina: il punto della consapevolezza di stare scrivendo la propria storia. Finalmente dal basso.

da Santiago

La foto di copertina è stata trovata in rete, le altre sono dell’autrice

Sorgente: Cile, voci dalla prima linea: «Insieme non abbiamo paura» – DINAMOpress

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