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Il caso. Dal governo spunta la proposta di un altro bonus per i lavoratori più poveri: 400 euro all’anno. Una misura che conferma la frammentazione dello stato sociale, non risolve i buchi di un malconcepito “reddito di cittadinanza” e rafforza la trappola della precarietà. Per lottare contro le diseguaglianze non servono misure neoliberali, ma ripensare lo stato sociale in senso universalistico e anche un reddito incondizionato. Le risorse ci sono: Siamo realisti, chiediamo il possibile.

Roberto Ciccarelli

Li chiamano «incapienti». Sono i contribuenti che hanno un reddito fino a 7.500 euro annui, tanto basso da non presentare la dichiarazione dei redditi. E nel caso la presentano, non beneficiano di detrazioni. Con 3 milioni e 700 mila di poveri al lavoro (in-working poors) l’Italia è quarta nell’Unione Europea, subito dopo Romania, Spagna e Grecia.

Nonostante siano occupate, queste persone vivono in nuclei familiari a rischio povertà. E, tra loro, i lavoratori autonomi sono i più penalizzati perché devono pagarsi la previdenza e le tasse che invece i dipendenti parasubordinati, in maggioranza part-time involontari, condividono per due terzi con i loro datori di lavoro intermittenti. Queste persone sono state doppiamente discriminato. Dal governo Renzi che decise di non estendere ai redditi inferiori a 8 mila euro il bonus degli 80 euro e dal governo giallo-verde Lega-Cinque Stelle che li ha esclusi dal farlocco «reddito di cittadinanza» perché il loro reddito Isee supera i 9600 euro annui.

La proposta del viceministro all’Economia Antonio Misiani (Pd) di erogare 480 euro all’anno (40 al mese) sotto forma di un bonus a partire da gennaio 2020 (al posto dell’intervento sul cuneo fiscale vero e proprio che sarebbe rimandato) è un risarcimento per questa doppia esclusione. Se confermato aumenterebbe il reddito di circa l’11%. Non male, si dirà. Si tratta di uno stipendio in più. Certo, ma si tratta anche di un nuovo intervento occasionale e disorganico, una toppa che conferma la frammentazione del welfare più arretrato e feroce d’Europa, oltre che la segmentazione dei poveri e dei precari in Italia, per di più esclusi dal «reddito di cittadinanza» che avrebbe dovuto essere un intervento globale contro la povertà, mentre esclude i senza fissa dimora (l’Inps si è attrezzato con camper per raggiungerli), oltre che i cittadini extra-comunitari che risiedono in Italia da meno di 10 anni.

Anche dal punto di vista finanziario la misura sarebbe singolare. Nella legge di bilancio confluirà un miliardo di «risparmi» dal «reddito» perché la platea potenziale dei suoi beneficiari è stata sovradimensionata. Allo stesso tempo si vorrebbe usare 2,7 miliardi per finanziare in parte, o in toto, una misura per gli «incapienti». In un blog sull’Huffington Post Misiani ha presentato la proposta negli stessi termini di Milton Friedman: un’imposta negativa sul reddito. Si tratta di una misura fiscale adottata negli Usa («Earned income tax credit») e nel Regno Unito nell’ambito dello «Universal credit» con vincoli stringenti rispetto all’obbligo al lavoro. Queste politiche neoliberali sono state fallimentari. E sono anche una trappola senza uscita per i poveri. Come le Poor Laws confermano la soglia che separa i poveri dai meno poveri.

Se, invece, si volessero combattere veramente le diseguaglianze, occorrerebbe utilizzare le risorse cospicue a disposizione estendendo il «reddito» a tutte le categorie escluse, senza imporre condizioni. Del resto già oggi il 70% dei suoi beneficiari non rientra nei parametri dell’«occupabilità» e percepisce un reddito a tutti gli effetti minimo, garantito e di base. Questo può diventare uno strumento per liberare chi sta male perché lavora troppo e male e chi non trova lavoro ed è distrutto dal bisogno. Siamo realisti, chiediamo il possibile.

Sorgente: il manifesto

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