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Siria, a Qamishli, città in bilico: i curdi traditi da Trump trattano ora con i russi

Nel Nord sotto attacco: i colloqui con gli emissari del Cremlino. L’intera Rojava si sta dissolvendo

di Lorenzo Cremonesi

La mossa era inevitabile. Con il sentimento di essere stati traditi, abbandonati, lasciati da soli dai vecchi alleati americani e in generale dell’Occidente, i curdi di Rojava avviano il dialogo diretto con il regime di Bashar Assad grazie all’attenta mediazione russa. In realtà non hanno alternative, sono con le spalle al muro e stanno capitolando per non essere annullati. Così, qui in questa regione contesa a Nord della Siria, piatta ma ricca d’acqua, fertile e ricca di campi petroliferi, si consuma l’ennesimo smacco delle diplomazie e degli eserciti dell’alleanza Nato a beneficio della Russia di Putin.

Sono queste le informazioni confermate dai repentini cambiamenti sul terreno che arrivano qui a Qamishli, la città più popolosa all’interno della regione autonoma curda. «Questa mattina è arrivata una delegazione russa all’aeroporto di Qamishli assieme ad altri funzionari del regime di Damasco. È stata ricevuta dai massimi dirigenti curdi. Si sono incontrati in un edificio vicino alla pista di atterraggio, uno dei compound mai abbandonati dal 2011 dai fedelissimi di Assad assieme ad alcuni loro quartieri nel centro città. Nel frattempo contatti stanno proseguendo alla presenza dell’ambasciatore russo a Damasco. L’intesa pare ormai raggiunta. Rojava si ritira e al suo posto stanno già schierandosi le truppe agli ordini diretti dello stato maggiore di Assad».

A parlare gli ambienti locali cristiani. Per motivi di sicurezza non vogliono svelare le loro identità, sono legati ai patriarchi delle chiese locali. Sono ambienti che sono rimasti sempre fedeli al regime, non lo hanno mai abbandonato, neanche nei momenti più difficili. Su questo punto tutti i sacerdoti delle chiese locali parlano la stessa lingua, senza differenze tra assiri, armeni, cattolici, ortodossi o caldei: l’unica via d’uscita dalla crisi e il solo modo per bloccare l’avanzata turca da Nord assieme alle milizie sunnite siriane legate ad Ankara è contrapporre a loro la piena sovranità di Damasco puntellata dai forti alleati militari russi e iraniani. «È interesse del regime creare una barriera contro l’invasione turca del nostro Paese. Noi cristiani non potremo mai dimenticare le responsabilità dell’antico Impero Ottomano nel massacro di armeni e in generali dei cristiani durante la Prima guerra mondiale. Anche se i curdi allora furono strumento delle violenze ottomane nei confronti dei cristiani, oggi abbiamo tutto l’interesse a creare un fronte comune», sostiene un alto esponente della Caritas locale, legato strettamente alla Chiesa di Roma.
È stata questa una dolorosissima concessione per i curdi. Ieri sera girava già la notizia secondo la quale le loro forze verranno assimilate all’esercito siriano della Quinta Brigata. È infatti ben noto che Assad non intende dare loro alcuna autonomia sia politica che militare.

Ma di fronte al pericolo maggiore di massacri e distruzioni hanno poche alternative. «Per salvare il nostro popolo siamo pronti a fare un patto anche il diavolo», ammettono all’unisono al Corriere tutti i capi politici e militari curdi incontrati negli ultimi cinque giorni. Del resto dinamiche simili sono già avvenute l’anno scorso per cercare di combattere l’aggressione turca contro l’enclave di Afrin, presso Aleppo. Anche allora i curdi hanno dovuto chiedere aiuto a Damasco e cercare la protezione russa.

Oggi però il dramma è molto più profondo, radicale. L’intera Rojava si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Ieri sera molti tra noi giornalisti stranieri abbiamo dovuto abbandonare in fretta il nostro albergo e il centro di Qamishli. Collaboratori locali e ufficiali curdi davano come imminente l’arrivo dei fedeli di Bashar. E del resto le prime avvisaglie erano apparse la mattina, quando centinaia e centinaia di militanti locali del partito del regime baathista hanno sfilato indisturbati per le vie del centro inneggiando al presidente siriano sventolando le bandiere del regime. Non accadeva dal 2011. Più tardi per le vie della città sono spariti anche i drappelli di militari curdi che fino ad allora avevano continuamente pattugliato le strade, gli alberghi e tutti gli edifici pubblici.

Ma le notizie più gravi arrivano dal fronte delle prigioni curde dove sino a ieri mattina erano detenuti i più pericolosi militanti dell’Isis catturati nelle battaglie tra il 2014 e il marzo 2019. Nelle ultime ore circa un migliaio di detenuti Isis sono fuggiti dal campo di Ain Issa, non lontano dalla cittadina di Kobane, e a nord di Raqqa, la vecchia capitale del Califfato. Fughe di massa e rivolte si registrano nel gigantesco campo di Al Hol, dove sono detenuti oltre 70 mila tra donne e figli dei jihadisti dell’Isis. Scontri violenti avvengono in generale in una trentina di centri di detenzione curdi. È l’intero sistema che crolla. I curdi abbandonano i servizi di guardia alle prigioni per concentrarsi sull’autodifesa militare, dove possono. A far precipitare lal loro situazione è anche la notizia arrivata da Washington dell’imminente ritiro del migliaio di soldati americani che li avevano sostenuti nelle lunghe battaglie contro l’Isis, a partire da quella di Kobane nell’autunno 2014, e che ultimamente fungevano soprattutto da garanzia contro le mire turche.

È la fine, la sconfitta militare e politica. Le strade di Rojava sono ormai diventate labirinti di sconosciuti. I centri stampa curdi tornano a diffondere i vecchi comunicati dei tempi della battaglia di Afrin in cui si accusava la Turchia di sostenere gli stessi jihadisti dell’Isis che Erdogan oggi proclama di voler combattere. Il grande problema dei curdi resta lo stesso di sempre: «Tra i pericoli percepiti da Ankara loro vengono molto prima dell’Isis».

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