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Nell’appello dello tsunami democratico trovano spazio queste parole: “Chiediamo alla società civile internazionale che faccia pressione sui propri governi per trovare soluzioni basate sul dialogo e il rispetto”

di Concita De Gregorio

Cantano “Bella ciao” le combattenti curde contro cui Erdogan schiera le truppe, la cantano a Barcellona centinaia di ragazzi seduti a occupare l’aeroporto del Prat. Le prime sono armate, sono in guerra. I manifestanti spagnoli sono disarmati, non violenti, di fronte alla polizia coi fucili carichi di proiettili di gomma. Anche a non voler sapere nient’altro – anche a dire non m’interessa dei curdi, dei catalani, affari loro – non si può non sentire l’unisono di quel canto, che è nostro. Il canto delle mondine italiane, preso a simbolo dalla Resistenza antifascista: lo stesso che i sindaci di destra di città intorno a Cuneo, a Milano, a Pordenone proibiscono di intonare nelle scuole e nelle bande.

Fosse solo per questo, in onore a quel canto, prestiamo attenzione pochi minuti. Perché intonano l’inno della nostra Resistenza, quelle ragazze e quei ragazzi? È perché la loro voce non arriva all’Europa dei governi? Una sordità – non ascoltare i giovani in lotta – che è la vergogna più grande e un’ipoteca politica sul futuro: persino più degli accordi e degli affari, più delle banche e dei patti indicibili e segreti.

La questione catalana è complessa, antica, circondata da una cortina di disinformazione e di menzogna che la rende per così dire “antipatica”: non suscita solidarietà. Ricchi, avidi, élite di sapienti: i catalani sono descritti come nei peggiori stereotipi delle peggiori storielle sugli ebrei – a proposito di Resistenza, appunto. Anche su questo ci sarebbe da dire e da chiedersi, ma quel che conta ora sono i fatti. Una sentenza del tribunale Supremo spagnolo ha condannato i leader politici della Catalogna a pene durissime ma ha allo stesso tempo smontato la tesi dell’attentato alla Costituzione, del tentato colpo di Stato. Non sono, quei leader, golpisti – hanno detto i giudici. E non è secessione quella che hanno chiesto nei decenni ma maggiore autonomia, indipendenza soprattutto di gestione, economica, culturale.

È una tradizione politica molto antica che ha democraticamente eletto i suoi rappresentanti, i quali sono da due anni in carcere con la prospettiva di restarci altri dieci, tredici: donne e uomini nel pieno della loro età adulta, quarantenni con figli bambini che il giorno del “referendum proibito”, il primo ottobre 2017, erano nei loro uffici della Generalitat, nel cortile degli aranci, nelle loro stanze a cercare di evitare incidenti, a chiedere alla loro gente “non reagite”, a chiamare al telefono i leader europei per dire: intervenite. Sono stati condannati per “sedizione”, un reato contro l’ordine pubblico, e non per “ribellione” alle leggi dello Stato.

Tuttavia a quella sedizione non hanno partecipato: sono stati inflitti loro cento anni di carcere in quanto “mandanti morali” di una consultazione popolare. Illecita, certo: non autorizzata dal governo centrale, a quel tempo retto dal leader della destra popolare Rajoy. Si tratta, si può dire in sintesi, di un reato collettivo di opinione: migliaia di cittadini hanno espresso nelle urne un voto, cosa che non potevano fare. Lo hanno fatto pacificamente, chi era lì in quei giorni ricorda gli sforzi dei leader per evitare scontri, non rispondere alle provocazioni. Sforzi riusciti. L’esercito spagnolo era in assetto di guerra, un elettore ai seggi perse un occhio colpito da una pallottola di gomma proprio come l’altro ieri un manifestante all’aeroporto ha perso un occhio, colpito dalle armi che la Guardia civil ammette di usare. Queste sono le uniche due vittime della sedizione, questo il bilancio: due manifestanti accecati dalle pallottole della polizia.

La sentenza sui politici catalani arriva alla vigilia di una nuova tornata elettorale: Si vota il 10 novembre, in Spagna, per la quarta volta in quattro anni. Pedro Sanchez, il leader socialista che non ha voluto “sporgersi a sinistra”, formare un governo con Podemos di Pablo Iglesias e che ha deciso di tornare alle urne, sa bene che la coincidenza con la sentenza arroventerà questa infinita campagna elettorale. Non potrà che essere una campagna di “ordine e retorica”, per evitare che le destre – compatte di fronte alle sinistre divise, come in Italia – cavalchino l’anticatalanismo che da sempre li accende, e vincano. Ada Colau, la sindaca di Barcellona (una non indipendentista, che si è astenuta al referendum del primo ottobre pur riconoscendo il diritto dei cittadini ad esprimersi) ha chiesto ieri a Sanchez uno “sforzo di umanità, mediazione e empatia”. Sarà molto difficile: il leader socialista ha già fatto sapere che non ci sarà nessun indulto, almeno non fino alle elezioni: ne va del suo risultato elettorale.

Le parole più significative, l’editoriale più interessante, l’ha scritto Pep Guardiola, allenatore di calcio al quale a suo tempo anche Matteo Renzi chiedeva consiglio. Guardiola è intervenuto in video con un appello ripreso dalle tv e dai siti di tutto il mondo su una piattaforma che è diventata in poche ore il motore della protesta civile, o della Resistenza – come si autodefinisce. “Tsunami democratic” è il movimento anonimo che ha debuttato a fine agosto su Twitter e su Telegram: registrato a giugno nelle Antille, server in Svizzera, comunicazioni interne attraverso Signal, tra le più sicure fra le applicazioni di messaggi. Nessun volto, nessun nome. Il governo ha avviato un’indagine per capire chi sono, finora senza successo.

È comparso Guardiola, serissimo, lunedì sera. Un appello alla comunità internazionale. Dice che questa sentenza è un attacco ai diritti umani: di riunione, manifestazione, libertà di espressione, di giusto processo. Dice che la Spagna “usa le leggi antiterrorismo per criminalizzare la dissidenza pacifica”. Spiega che i condannati sono stati democraticamente eletti e rappresentano i partiti e le entità della società civile più importanti della Regione: erano tutti in carica al momento del referendum, e sono stati votati di nuovo alle elezioni successive. Parla di “attacco inaccettabile nell’Europa del ventunesimo secolo”, chiama in causa i governi spagnolo e europei, appunto: servono dialogo e rispetto, non armi. Spiega l’indipendentismo: “È un movimento trasversale e di base, inclusivo, con una lunga storia basata sulla volontà di autogoverno, né xenofobo, né egoista: è un movimento che ha il suo fondamento nella forza del pluralismo e della diversità”.

L’appello, il manifesto dello tsunami democratico che intona Bella Ciao, si conclude così: “Quello che chiediamo è: Spagna, siediti e parla. Chiediamo alla società civile internazionale che faccia pressione sui propri governi per trovare soluzioni politiche e democratiche basate sul dialogo e il rispetto. C’è un solo cammino. Sedersi e parlare. Sedersi, parlare”. Soluzioni politiche, non proiettili di gomma. Rispetto della voce dei popoli, non eserciti sulle città. Siediti e parla, Europa. Se ci sei, se ascolti i canti di chi ha vent’anni e li riconosci come quelli di chi ne ha cento, il momento è ora. Non ti serve nemmeno una sedia. Puoi parlare anche in piedi, si sentirà meglio.

Sorgente: Il caso Catalogna, Bruxelles siediti e parla | Rep

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