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Rivolta infinita, e la piazza che sente odore di resa dei conti scandisce persino il nome di Donald Trump, tra gli altri impossibili aiuti. L’indifferenza di BoJo che più che all’ex colonia britannica ha da pensare al suo Regno traballante. E non non è affatto detto -spiega Michele Marsonet- che il Tanto peggio sia il Tanto meglio finale sperato dalla piazza di Hong Kong.

di Michele Marsonet

Rivolta in cerca di sponsor

E’ naturale che i dimostranti di Hong Kong, che continuano a godere di un vasto sostegno popolare, si appellino all’Occidente durante le manifestazioni chiedendone l’intervento per diminuire tanto la pressione diretta della polizia locale, quanto quella indiretta delle forze cinesi che stazionano nella ex colonia britannica e a Shenzhen poco oltre il confine.

Quando s’invocano il suffragio universale (che non c’è), e la libertà di stampa e di espressione (finora non abolite del tutto), qualsiasi mezzo sembra lecito pur di conseguire l’obiettivo che ci si prefigge, anche se a tutti è noto che tale obiettivo è pressoché impossibile da raggiungere.

Rivolta infinita, e la piazza che sente odore di resa dei conti scandisce persino il nome di Donald Trump, tra gli altri impossibili aiuti. L'indifferenza di BoJo che più che all'ex colonia britannica ha da pensare al suo Regno traballante. E non non è affatto detto -spiega Michele Marsonet-  che il Tanto peggio sia il Tanto meglio finale sperato dalla piazza di Hong Kong.

The Donald, vorrei ma non posso

Destano tuttavia una certa meraviglia alcuni aspetti estremi delle manifestazioni. Negli ultimi giorni, per esempio, è stato spesso scandito il nome di Donald Trump quasi fosse il salvatore in pectore della città. Eppure è noto che il tycoon è contrario agli interventi all’estero, figuriamoci poi in territorio cinese.

Trump si è limitato a consigliare ai dirigenti di Pechino di usare la massima moderazione possibile, facendo capire che un’eventuale repressione violenta danneggerebbe ancor più i rapporti tra Usa e Repubblica Popolare.

Dazi prima di Hong Kong

Del resto tali rapporti sono già molto tesi per la guerra commerciale in corso tra i due Paesi, con la continua imposizione di dazi sulle merci importate da una parte e dall’altra. Ed è facile intuire che a Trump interessi questo problema assai più della situazione di Hong Kong.

Nel contempo alcune frange dei dimostranti hanno preso l’abitudine di cantare di fronte alla polizia – e alle inevitabili spie di Pechino – l’inno nazionale degli Stati Uniti. Così fornendo alla leadership cinese l’occasione di accusare gli Usa di fomentare i disordini. Accusa peraltro non supportata da prove, giacché risulta difficile immaginare che in una situazione simile la rappresentanza diplomatica americana si esponga in questo modo.

BoJo a rischio snobba l’ex colonia

Meglio poi dimenticare gli ex protettori inglesi. In questo momento Boris Johnson e il Regno Unito hanno altre gatte da pelare grazie alla Brexit, che rischia di frantumare il regno e con esso la più antica democrazia del mondo occidentale.

Certo è facile giudicare gli avvenimenti sedendo in poltrona, mentre è assai più arduo viverli sulla propria. Eppure è lecito chiedersi se sia questa la giusta politica da adottare. Se, in altri termini, sia giustificata la strategia del “tanto peggio, tanto meglio”.

Tanto peggio dubbio Tanto meglio

Poiché è evidente che la Cina non può cedere a rischio di portare i disordini all’interno dei suoi stessi confini, sarebbe più ragionevole aprire un tavolo di trattativa per verificare quanta autonomia si può salvare.

Ma pure questo è arduo, giacché il movimento ha sì dei leader, ma non riconosciuti da tutti. In altre parole non si sa chi dovrebbe sedere al tavolo, ed è tale instabilità a fare oggi di Hong Kong una polveriera che nessuno è in grado di neutralizzare.

Sorgente: Hong Kong, se la rivolta orfana ora acclama Donald Trump –

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