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Quattro anni fa a Parigi tutti i paesi si impegnarono a varare piani per tagliare le emissioni di gas serra: molti non hanno fatto il loro dovere

Roberto Giovannini

É il giorno dell’UN Climate Action Summit, il vertice convocato a New York in cui il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, chiederà ai leader mondiali di dare “gambe” efficaci e realistiche per centrare gli impegni per fermare la catastrofe climatica stabiliti dall’Accordo di Parigi del 2015.

La situazione la conosciamo, e non è per niente buona: quattro anni fa, nella capitale francese, tutti i paesi si impegnarono a varare piani – che da subito furono definiti insufficienti dagli scienziati – per tagliare in modo drastico le emissioni di gas serra che stanno infiammando il Pianeta, allo scopo di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi centigradi. Ma le promesse non sono state mantenute: dopo tre anni di stabilizzazione, nel 2017 prima e nel 2018 poi le emissioni di CO2 nel mondo sono aumentate, rispettivamente, di 527 e 565 milioni di tonnellate, dice l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia. La concentrazione di CO2 in atmosfera è in continua crescita, e ha raggiunto e superato le 410 parti per milione. Secondo uno studio di Climate Action Tracker, se i piani nazionali venissero rispettati (e non è detto), andremo oltre la soglia di 1,5 gradi nel 2035, di 2 nel 2053, e arriveremo a più 3,2 gradi nel 2100. Che la situazione sia pericolosissima, a parte gli allarmi della scienza, lo dicono le cronache di tutti i giorni: uragani sempre più distruttivi nei Caraibi, area ghiacciata sempre più ridotta nell’Artico, estati roventi ovunque. Se guardiamo a casa nostra, le temperature medie annuali nell’area del Mediterraneo sono ora 1,4 gradi sopra i livelli di fine Ottocento, e continuano a crescere, specie d’estate.

Insomma, si rischia di perdere l’ultimo treno per limitare in modo significativo il surriscaldamento globale. Servirebbe – lo dicono gli scienziati dell’Ipcc dell’Onu – uno sforzo grandioso e coordinato di tutti gli Stati, a cominciare da quelli più importanti dal punti di vista economico. Il tempo, le tecnologie e le risorse le abbiamo. Servirebbe, insomma, il multilateralismo; ma oggi tira il vento del sovranismo. Proprio quando anche negli Stati Uniti d’America i negazionisti climatici sono diventati (a dire dei sondaggi) una minoranza, i leader politici mondiali preferiscono giocare in splendida solitudine, pensando alle convenienze nazionali del momento, e del tutto disinteressati a quanto accadrà nel giro di pochi decenni. Da Trump, a Putin, al brasiliano Jair Bolsonaro.

Alla tribuna Onu di New York il segretario generale Guterres inviterà come relatori solo i leader di paesi impegnati sulla sfida del clima, sperando in nuovi impegni e soluzioni. Dunque no a Trump e Bolsonaro, e no anche ai rappresentanti di Giappone, Arabia Saudita, Australia e Corea del Sud. Ci saremo invece noi dell’Unione Europea, che come Cina e India siamo in una situazione curiosa: l’Europa ha indicato impegni di taglio delle emissioni davvero molto modesti, quando invece concretamente è molto più avanti. Si stanno ottenendo risultati migliori del previsto nel potenziare la green economy e mettere a punto nuove tecnologie pulite. Settori che oltre a creare posti di lavoro, possono migliorare la vita di tutti, nei paesi ricchi come in quelli in via di sviluppo. Aumentare l’ambizione degli obiettivi, osservano gli ambientalisti, potrebbe spingere altri paesi a imitare il buon esempio. E anche l’Italia può e deve fare la sua parte, trasformando in fatti e provvedimenti lo slogan del nuovo governo per un «Green New Deal», che al momento contiene poca sostanza.

Anche perché siamo ancora in tempo per evitare il peggio. Tra i tanti fattori preoccupanti, sull’altro piatto della bilancia va posta la rivolta dei più giovani sotto l’egida di Greta Thunberg. Le indagini sociologiche e demoscopiche mostrano che la pacifica ma determinata protesta dei ragazzi ha grandi effetti sull’opinione pubblica nel suo complesso in tutti i paesi economicamente più avanzati. E quelle stesse indagini rivelano un altro fattore nuovo, che potrebbe paradossalmente rivelarsi decisivo: cresce il timore per il disastro climatico. Le continue ondate di calore, le impressionanti devastazioni provocate dagli uragani tropicali, le migrazioni di massa indotte dall’emergenza clima, i fenomeni meteo sempre più gravi anche nelle aree più temperate colpiscono potentemente l’immaginazione di tante persone. Chissà che non si riveli la carta vincente per salvare il Pianeta: quando il tasso di «paura climatica globale» supererà una certa soglia, allora tutti i politici dovranno dare risposte. Purché non sia troppo tardi.

(Foto del fotografo canadese Edward Burtynsky tratta dal film “Antropocene” che descrive l’impatto umano sul mondo)

Sorgente: Clima, ultima chiamata. Ora bisogna salvare gli accordi sull’ambiente – La Stampa

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