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I 15 milioni che non votano

È il primo movimento politico del Paese: un esercito, più o meno “fedele” di quindici milioni di militanti. Sfiora quasi, di media, il 34% del corpo elettorale. È il partito degli astensionisti. Carlo Fusi lo ha evidenziato con comprensibile preoccupazione su queste colonne giovedì 20 giugno scorso. Una massa di persone che «non solo non vota più, ma in sostanza volta le spalle, esce dal perimetro di gioco. Non gli interessa partecipare e non gli interessa neppure verificare le decisioni prese da altri che pure hanno effetti e pesano sulle loro vite», ha scritto il nostro direttore. Una constatazione allarmante.

Ma ancor di più lo è l’indifferenza che accompagna l’ormai consolidata tendenza. Sembra davvero che non interessi più nessuno se la gente partecipi o no alle elezioni. Si trascura sostanzialmente il fondamento della stessa democrazia alla quale, a parole, tutti sembrano tenere. Ma nessuno si pone il problema della disaffezione che ha “contagiato” una porzione consistente di cittadini i quali rifiutano di recarsi alle urne per i motivi più vari, e spesso insondabili, ma riconducibili, come i pochi che s’interessano al fenomeno argomentano, alla valutazione negativa della qualità della democrazia.

Se alle politiche dello scorso anno la percentuale di votanti è stata il 72,93% per la Camera e il 72,99% per il Senato, meno del 2,3% rispetto alle elezioni del 2013, significa che il processo di partecipazione democratica ha subito uno scossone significativo che avrebbe dovuto indurre i partiti politici ad una riflessione che hanno accuratamente evitato di fare.

Avrebbero dovuto, infatti, ammettere che negli ultimi quarant’anni lo smottamento è stato progressivo. Nel 1979 votò il 90,62% degli aventi diritto, in linea con quanto era avvenuto dal 1948. Già nel 1983 la partecipazione cominciava ad assottigliarsi: 88,01, una percentuale comunque ragguardevole.

Da allora, elezione dopo elezione, il calo è stato progressivo fino a divenire vistoso negli ultimi vent’anni. La diserzione delle urne si avverte maggiormente – almeno di recente – laddove un tempo si registravano veri e propri plebisciti: alle elezioni amministrative. Le tornate di quest’anno sono state drammatiche. Sia alle regionali che alle comunali l’affluenza è stata davvero minima considerando che gli elettori, per quanto disorientati, dovrebbero quantomeno essere attratti dai problemi che li riguardano da vicino e, dunque, regolarsi di conseguenza.

Quindi è la “cosa pubblica” in quanto tale – sia essa politica generale, che particolare, amministrativa e perfino referendaria – a tenerli lontani. Insomma, da un terzo alla metà degli italiani rifiuta strutturalmente il voto. Qualcuno ha azzardato che l’astensione ha cominciato a manifestarsi in dosi considerevoli in Italia quando, sul finire degli anni Settanta si è manifestata una sensibilità inedita intorno al fenomeno della corruzione politica. La “questione morale” venne messa in luce, fino ad assumere un carattere identificativo del partito che la propose, nel 1981 quando Enrico Berlinguer, ad essa si riferì in una intervista a Eugenio Scalfari ( La Repubblica,28 luglio) destinata a fare epoca. Ma anche da altre sponde politiche la corruzione dei partiti venne denunciata – ricordiamo le battaglie antipartitocratiche di Giorgio Almirante e le denunce morali di Ugo La Malfa – ed assunse una valore discriminante tra chi immaginava un’applicazione severa dell’articolo 49 della Costituzione e chi si cullava nella pratica clientelare fonte di ingiustizie e risentimenti.

Non a caso l’inizio della frana dell’astensionismo coincide con queste pubbliche prese di posizione diventate argomenti politici decisivi, fino a Tangentopoli. Ma se questa è una giustificazione evidente all’apparenza, c’è dell’altro, più nel profondo, che muove alla sconfessione della democrazia attraverso il rifiuto del voto.

Numerosi politologi convergono nell’identificare tra le cause del fenomeno quella che forse è la più importante: il progressivo deterioramento dei partiti politici e dunque la povertà dell’offerta da parte degli stessi i quali, slegati da elementi emozionali, passionali, ideologici e perfino da interessi categoriali hanno provocato nelle classi politiche, sempre meno frutto dei processi decisionali della base in ossequio ad un leaderismo populista che è il cancro delle democrazie, un atteggiamento incline alla disintermediazione, nel senso del rifiuto del riconoscimento dei corpi intermedi con i quali confrontarsi per elaborare linee programmatiche politiche, tanto di governo che amministrative, in un contesto di coinvolgimento della “base” o, come si suol dire, delle forze sociali.

I cittadini, non avendo più sul territorio, né riferimenti partitici immediati ( le vecchie sezioni, i lunghi dibattiti, la “sana” burocrazia politica attraverso la quale si decidevano cariche e carriere dal livello più basso), né sociali ( i sindacati, in primo luogo e poi l’associazionismo collaterale alle forze politiche), si sono sentiti come “traditi” o, ancor meglio, “disorientati”. Per non parlare delle giovani generazioni – i millennials in particolare – che hanno provveduto con la supplenza dei social network a superare il problema della “disintermediazione” riconoscendo in un post lo strumento più efficace per intervenire “socialmente” mettendo da parte le anticaglie partitiche.

C’è stato poi chi ha dato la spinta finale alla de- ideologizzazione propagandando l’abolizione di fatto delle categorie di destra e di sinistra allo scopo di compiere incursioni in campi abbandonati o devastati dalle conseguenze dell’ideologismo dei diritti civili – surrogato dei programmi e delle visioni politiche globali – al puro scopo di appropriarsi di praterie elettorali avulse da qualsiasi riferimento culturale o di appartenenza.

Perciò al voto consapevole è subentrata la labile e volatile “protesta” per cui in una democrazia fragile può accaderne che nel torno di una legislatura muti completamente il quadro d’assieme e si trovino al governo del Paese forze che più incompatibili non le si potrebbe immaginare, unite – si fa per dire – soltanto dal mastice del potere che, nel caso specifico italiano, è la demolizione dell’Europa con le conseguenze che lucidamente Claudio Petruccioli ha analizzato sul “Dubbio” di ieri, culminanti in una guerra dalle proporzioni drammatiche; una guerra non convenzionale, naturalmente, ma comunicativa, finanziaria, tecnologica, coloniale dal punto di vista culturale tesa a spartirsi la ricchezza e l’identità della Vecchia Europa.

Ma chi, tra le forze politiche maggiormente colpite dall’astensionismo, mette in discussione ciò che si profila, vale a dire il vassallaggio europeo ( che prevediamo secolare) verso i “grandi spazi” che si stanno costruendo per l’ultima aggressione a ciò che rimane del nostro mondo che avrebbe una sola possibilità di resistere, come “Terra di nazioni”: reinventarsi una sovranità continentale prossima ad una confederazione coesa piuttosto che sfibrarsi ancora nelle guerricciole tra borgognoni ed armagnacchi?

A dire la verità, il problema non è solo italiano. È vero che nell’ultima tornata europea il voto è aumentato dell’ 8,34% rispetto al 2014, raggiungendo una media del 50,95%, media tutt’altro che esaltante: si è recato alle urne la metà del corpo elettorale dell’Unione. Ma è altrettanto vero che pochi Paesi hanno avvertito il senso di una consultazione dai caratteri quasi “epocali”: il Belgio con l’ 89%, mentre in controtendenza la Slovacchia ha fatto registrare l’affluenza più bassa con il 23%, mentre l’Italia non ha brillato e si è piazzata tra le prime dieci, al nono posto con il 56, 10% ( in calo di oltre due punti rispetto al 58,69 di cinque anni fa), preceduta da Grecia ( 58%), Germania ( 62%), Spagna ( 64%). La Francia ha deluso a conferma della confusione politica che sembra essersi “stabilizzata”: ha votato solo il 51%.

Le cifre parlano chiaro: le elezioni europee, quasi ovunque, hanno sempre registrato una minore affluenza rispetto alle politiche, forse in ragione di una scarsa consapevolezza del peso del Parlamento europeo ( che oggettivamente conta assai poco, tolte le competenze sull’elezione del presidente della Commissione europea e della Commissione stessa, proposte peraltro dal Consiglio europeo) e di una generica percezione di distanza tra la quotidianità e le istituzioni dell’Unione. Forse una riforma dovrebbe partire da qui, dalla rappresentanza. Ma chi se ne cura?

L’Eurobarometro ha rilevato che solo il 48% per cento dei cittadini europei crede che le proprie ragioni contino nell’Ue ( ma esistono enormi differenze tra un paese e l’altro, per esempio in Svezia il 90 per cento dei cittadini crede che la propria voce conti, a fronte del 24 per cento degli italiani e del 16 per cento dei greci). E questo è un punto dolente sul quale bisognerebbe intervenire. Ma temiamo che i buoi siano già scappati dai recinti… Insomma, fino a quando le elezioni europee saranno la somma di elezioni nazionali, e non un evento politico transnazionale, del quale veri e propri partiti europei saranno i protagonisti, dovremmo adattarci a piccole cifre che racconteranno di una minoranza che, nella migliore delle ipotesi – al netto di schede bianche o nulle – mostrerà una tendenza, ma non racconterà l’effettivo orientamento politico europeo.

L’astensionismo è variamente motivato, come si vede. E, dunque, discutere intorno “partito del non voto” ha poco senso, dalla disaffezione pura e semplice ai bassi livelli di istruzione, all’ostilità per le classi politiche ondivaghe e prive di un orientamento che possa favorire un voto di appartenenza. Tanto in Italia, quanto in Europa, rendere obbligatorio il voto per superare l’astensionismo, come qualcuno ha proposto, non risolverebbe il problema. È molto più complicato. Anzi, la coercizione, magari con corredo di sanzioni per chi non vota, acuirebbe la sfiducia. L’irreggimentazione non farebbe altro che aggravare la questione. La trasgressione verrebbe vista come un atto di ribellione civile e dunque si rivelerebbe controproducente rispetto ai fini perseguiti.

Crediamo che tutto dipenda dalla trasformazione in senso partecipativo della democrazia. I partiti politici dovrebbero assolvere al loro compito di cinghia di trasmissione delle pulsioni nascenti nelle società in fattori politici, elementi di rappresentatività e di governabilità a tutti i livelli e soprattutto riattivare e modernizzare le culture politiche di riferimento facendo lavorare il cervello più dei muscoli e la conoscenza più di Twitter. Non ci si può evidentemente esimere da quella che chiamiamo “democrazia elettronica” o “digitale”. Ma i processi che la tecnologia innesca devono essere controllati. Insomma, il web non è il passaporto per l’anti- democrazia coniato dalle oligarchie, ma il mezzo per supportare il sapere e, dunque, le decisioni. Ogni società politica è fondata sulla decisione. La differenze si riscontrano nelle modalità in cui queste vengono assunte. Ed è su questo piano che si gioca la grande partita della spoliticizzazione, analizzata nel secolo scorso e dunque prevista da Carl Schmitt, propedeutica alla disaffezione o, qualora l’avviso fosse diverso, alla ripresa della centralità della politica, del suo primato sull’economia e sulla tecnica, che potrebbe far mutare l’orizzonte di molti elettori disorientati.

Su questo sarebbe auspicabile una riflessione da parte delle forze politiche, ma grande è la confusione sotto il cielo e, a differenza di quanto immaginava Mao Zedong, il futuro è incerto, anzi per nulla confortante.

Sorgente: Se l’astensionismo vince, guadagnano satrapi e populisti – Il Dubbio

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