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I due segmenti che compongono la maggioranza hanno mancato di rispetto in forma molto grave all’istituto parlamentare e al loro stesso presidente del Consiglio

di STEFANO FOLLI

Lo spettacolo andato in scena a Palazzo Madama è forse una novità assoluta nella storia parlamentare della Repubblica. Il presidente del Consiglio interviene su una materia assai delicata – i rapporti opachi tra il secondo partito della coalizione e la Russia di Putin – e ad ascoltarlo non c’è il personaggio centrale della vicenda: il vicepremier e leader della Lega, Salvini, l’uomo che avrebbe dovuto sentire l’urgenza di prendere la parola in Parlamento invece di fare una dichiarazione via Facebook dal Viminale. Non solo: mentre l’avvocato Conte comincia a parlare, i senatori dei Cinque Stelle lasciano l’aula e vanno ad appollaiarsi nelle tribune del pubblico. Lo fanno contro la decisione di Palazzo Chigi di avviare a compimento i lavori della Tav Torino-Lione: scelta attesa, se non scontata. In pratica costringono il premier a rivolgersi a un emiciclo mezzo vuoto.

Il significato è preciso e sconfortante: ieri i due segmenti che compongono la maggioranza hanno mancato di rispetto in forma molto grave all’istituto parlamentare e al loro stesso presidente del Consiglio. Per cui, se si voleva una conferma dello stato di confusione politico-istituzionale in cui ci troviamo, quel che è accaduto ha tolto ogni dubbio. Né vale il goffo tentativo dei 5S di motivare il loro piccolo Aventino come una protesta non più per la questione Tav, bensì per l’assenza di Salvini. È il tipico caso in cui la toppa è peggiore del buco. Lo sgarbo rimane e in altri tempi avrebbe provocato almeno un chiarimento in Parlamento con tanto di voto di fiducia. Invece accadrà che il non-governo resterà in piedi perché agosto alle porte impone altre priorità.
Peraltro dalla giornata di ieri nessuno esce bene. Non Salvini che parla sui “social” anziché in Senato e non sembra in grado di scegliere la via delle urne, nonostante i sondaggi trionfali, soprattutto perché teme il fardello della vittoria in un contesto di isolamento internazionale. Non i Cinque Stelle, è ovvio, che mai come in queste ore, disintegrati dalla vicenda Tav, la loro Caporetto, danno l’idea di essere un esercito in rotta. Di Maio è un leaderino evaporato e non c’è da stupirsi se qualcuno, magari un sindaco 5S che sa di non essere ricandidabile, prova ad appoggiarsi al premier (nonostante che sia l’uomo della Tav) pur di prendere le distanze dal gruppetto dirigente.

Ma nemmeno Conte, va detto, esce rinvigorito dal Senato. Il suo discorso sulla Russia è debole e notarile, né pro né contro Salvini. Il premier non ha saputo o voluto innalzare la dimensione politica della vicenda quando invece solo questo avrebbe dato senso alla decisione di intervenire. È il presidente di una maggioranza in briciole che regge per mancanza di alternative e di idee nonostante l’assenza di qualsiasi mastice. Ciò non toglie che proprio tale condizione possa favorirlo dopo l’estate, insieme a Tria e a Moavero, quando si tratterà di discutere con Bruxelles la legge di Bilancio. Questa sorta di sub-governo istituzionale si potrebbe giovare per paradosso della paralisi dei due soggetti politici della coalizione, se la fotografia scattata ieri fosse valida anche in autunno. Quanto al Pd è riuscito a dividersi anche nel giorno in cui tutte le attenzioni erano sulle difficoltà dei giallo-verdi. E alla fine la mozione di sfiducia contro Salvini è un passo necessario ma insufficiente a mascherare i conflitti interni al centrosinistra.

Sorgente: Il non-governo nel deserto | Rep

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