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Il culto del capitano costruito attorno all’uomo forte si capovolge: ora l’uomo di potere scappa

di Ezio Mauro

Come se all’improvviso si fosse spogliato di tutte le divise poliziesche che ha abusivamente indossato in questi mesi, Matteo Salvini scappa. È uno spettacolo a cui non avevamo ancora assistito, una rappresentazione inedita del potere che capovolge di colpo il culto politico del Capitano, costruito attorno all’uomo forte e decisionista, che mostra il petto e sfida i nemici, mentre cavalca impavido lo spirito dei tempi. E invece scappa. Si sente braccato dallo scandalo russo del petrolio e delle percentuali milionarie, dalle voci dei suoi uomini mentre scambiano nei microfoni che li registrano la politica estera dell’Italia con i rubli clandestini per la campagna elettorale.

Si scopre di colpo esposto davanti al mondo dall’imperizia dei faccendieri che ha convocato intorno a sé nella doppia missione russa, una alla luce del sole con gli industriali locali e l’altra nella penombra intercettata del Metropol, con trafficanti che dovevano definire la cresta politica sulla vendita del petrolio.

Si vede isolato dal suo stesso governo, di cui fino a ieri era il padrone, e che oggi si ribella davanti alla sua debolezza e alla sua palese ambiguità, con il premier Conte che prende le distanze e il vicepremier Di Maio che stacca incredulo i primi dividendi politici dell’affanno leghista, sentendo l’odore del sangue dell’animale ferito. Naturalmente l’imbarazzo di Salvini è solo colpa sua. La fuga non è affatto una strada obbligata per un leader politico.

In democrazia, soprattutto in una democrazia (quasi) diretta nell’interpretazione che ne dà tutti i giorni il populismo al potere, sarebbe doveroso affrontare lo scandalo a testa alta, distinguere colpe, errori, ingenuità e responsabilità e fare chiarezza fino in fondo, rispondendo ai dubbi e agli interrogativi della pubblica opinione.

Solo che bisognerebbe dire la verità: e Salvini evidentemente non può permetterselo. Questo è il primo nodo. Forte con i deboli, spietato con i nullatenenti dei diritti e feroce coi disperati dell’altro mondo, il ministro dell’Interno sta rivelando giorno dopo giorno di essere debole con se stesso, spaventato dalla realtà, intimorito dalla dimensione internazionale di una vicenda che evidentemente non padroneggia, anche perché finché è rimasta coperta l’ha gestita con la faciloneria dell’improvvisatore: e quando le intercettazioni l’hanno scoperchiata ne è stato sopraffatto, rivelandosi incapace di controllarla, dominarla o anche soltanto di spiegarla. Mentre i dilettanti del suo seguito spacciati per statisti e strateghi hanno aggiunto il tocco provvidenziale del ridicolo con le loro difese disordinate e scomposte.

L’evidenza fisica, materiale, della conversazione italo-russa registrata taglia la strada a Salvini nella ritirata che il vicepremier ha tentato di imboccare appena lo scandalo è esploso. Ha provato a dire che non sapeva cosa facesse quel tal Savoini nella sua corte a Mosca, ed è stato smentito da se stesso, vittima dell’abuso quotidiano di social network, tra cui la certificazione di un mandato fiduciario di intimità e di rappresentanza nel mondo del Cremlino, un mondo politicamente e strategicamente decisivo per la politica sovranista di Salvini. Ha tentato di separare la parte palese della sua missione russa dalla parte occulta, ma il Savoini principe dell’ombra in cui tratta le tangenti del petrolio è lo stesso che rimbalza nella piena luce di Instagram con il ministro dell’interno sulla piazza Rossa, o nelle fotografie d’onore del tavolo di governo a Villa Madama, alla cena ufficiale con Putin. Ha cercato di derubricare a “pettegolezzo” uno scandalo inscenato a Mosca, scoppiato in America e adesso dilagato a Roma, col risultato che gli stessi suoi partner di governo gli chiedono trasparenza, invitandolo a presentarsi in Parlamento, e rispondere.

Visto che la verità è impossibile perché scomoda e politicamente indifendibile, resta un’unica strada prima della fuga. Prendere le distanze da Savoini e dai suoi soci del Metropol, separarsi dalla loro condotta e dai loro destini, spiegare al Paese che quanto è successo nell’albergo russo non è su mandato della Lega ma a danno della Lega, convincere gli italiani che un ministro dell’Interno non può essere associato a dei mestieranti che negoziano uno sconto sul petrolio per pagare la propaganda elettorale di un partito: anzi, quel ministro ha fatto un salto sulla sedia quando ha letto la conversazione incriminata, è inorridito, ha subito denunciato Savoini e i suoi compagni perché si sono permessi di parlare nelle intercettazioni a nome della Lega, del suo segretario, addirittura del governo e della sua strategia politica nei confronti dell’Unione Europea, mentre non potevano farlo.

Poiché hanno agito alle spalle del leader, in un abuso di fiducia e tradendo l’amicizia, il ministro li denuncia come millantatori e profittatori in proprio, colpevoli in ogni caso di averlo gravemente danneggiato mettendo in piedi coi loro interlocutori russi quel meccanismo perfettamente oliato per far sgorgare milioni in tangenti dal petrolio. Perché Salvini non lo fa? Perché non lo ha fatto immediatamente, salvando la sua buona fede? Perché non sente il dovere di dire queste cose? Evidentemente perché non può farlo: dove comincia, fin dove si è allargata e dove finisce la rete occulta stesa da Savoini nel retrobottega leghista? Quali e quanti condizionamenti nascono oggi da questa rete? E quanti altri Savoini rispondono a Salvini e operano come lui nel mistero leghista?

Indecorosa, a questo punto rimane solo la fuga. Fugge chi non sa spiegare niente, chi non può nemmeno provare a farlo, chi rifiuta le domande. Quando nell’ultimo (e unico) incontro con la stampa, gli hanno chiesto se aveva invitato lui Savoini a Mosca, il ministro dell’Interno ha detto sette volte “no”, senza accorgersi che il nervosismo non nasconde il vuoto, ma rivela la paura. Ha provato come sempre a banalizzare: “Ragazzi, mi fate fare il mio lavoro”? “Ragazzi”? Cosa vuol dire? È alla pubblica opinione che un uomo di Stato deve rendere conto: e nel suo “lavoro” c’è l’obbligo democratico del rendiconto, il dovere della trasparenza, l’interesse a cacciare via ogni ombra. “Cercate i rubli, il metano, il petrolio, i missili e le armi nucleari: buona fortuna”, ha aggiunto Salvini cercando di annegare la vicenda in un ironico calderone sproporzionato. Ma anche senza quegli ingredienti infernali, la storia resta torbida, perché è torbida in partenza e il ministro rifiuta di spiegarla: perché quegli uomini a lui legati, nelle stesse ore di una sua missione politica, mettevano in piedi un sistema di finanziamenti illeciti con un Paese straniero?

Il ministro finge di non capire la cosa più grave: e cioè che in gioco è proprio la sovranità dell’Italia, il suo cavallo di battaglia messo a repentaglio da questo scandalo, con i plenipotenziari salviniani che “vendono” la politica estera del nostro Paese e la strategia europea del governo a esponenti russi, in cambio di fondi illegali che serviranno a pagare la campagna elettorale leghista.
Cosa dobbiamo ricavarne? Le scelte che il nostro governo ha fatto e sta facendo in Europa sono libere o subordinate agli interessi di un altro Paese? E il ministro dell’Interno, nella sua polemica contro la Ue, agisce in proprio o nella cornice di questi rapporti vincolanti con la Russia, con uno scambio prefissato di compiti, funzioni, ruoli e interessi? In buona sostanza, il Paese è sovrano o condizionato?

La questione, com’è evidente, riguarda anche il presidente del Consiglio e la delegazione governativa dei Cinque Stelle, che troppo spesso sono andati a rimorchio di Salvini senza mai eccepire sulle sue scelte di politica estera, diventate le scelte dell’esecutivo. In questi mesi, intanto, l’Italia si è spostata dalla sua tradizionale collocazione internazionale, scivolando in una zona grigia a-occidentale, critica con la Ue, vicina al trumpismo più che ai valori della democrazia americana, consonante col gruppo di Visegrad ma nella scia del sovranismo illiberale russo. Tutto questo senza un dibattito in Parlamento. È ora che le Camere chiedano conto di una bussola impazzita. E a Salvini, se smette di fuggire e con buona pace della presidente del Senato che si è permessa di parlare di “gossip”, chiedano una cosa in più: se è un uomo libero, quando rappresenta il governo del Paese, oppure è vincolato dal patto russo del Metropol.

Sorgente: Caso Savoini, la paura di Salvini leader braccato | Rep

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