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Le misure anti-Cina di Trump hanno fatto crescere l’economia messicana e ridotto le partenze dei migranti

di Federico Rampini

Donald Trump apre un nuovo fronte contro l’immigrazione: dalla settimana prossima applicherà dazi del 5% sulle importazioni dal Messico, se quel paese non blocca l’afflusso di migranti e profughi verso gli Stati Uniti. Quei dazi aumenteranno di cinque punti al mese fino a raggiungere il 25% a ottobre, se gli arrivi dal Sud non cessano. È la versione “hard” dell’accordo Ue-Turchia, quello che ha delegato a Erdogan il compito di bloccare la rotta dei Balcani verso la Germania. In quel caso l’Europa paga Ankara; Trump invece fa pagare a Città del Messico il conto per la crisi al confine. Ma involontariamente attira l’attenzione su una sorprendente storia di successo: il Messico è il vincitore della guerra dei dazi Usa-Cina. E se Trump studiasse l’esempio messicano troverebbe una lezione utile sul governo dei flussi migratori.

La Casa Bianca accusa i democratici di boicottare con i ricorsi giudiziari la costruzione del Muro mentre al confine c’è una “emergenza”. I dati ufficiali della Border Patrol e dell’Immigration and Custom Enforcement dicono che c’è effettivamente un aumento recente negli attraversamenti della frontiera. Il numero dei “fermati” (arresto e detenzione temporanea sono il primo passaggio per aprire l’esame della richiesta di asilo) ha avuto un’escalation negli ultimi due mesi. La media nel primo biennio di Trump però è solo di poco superiore a quella degli otto anni di Barack Obama: 37mila contro 35mila al mese. Ben altra emergenza ci fu negli otto anni di George W. Bush: dal gennaio 2001 al gennaio 2009 furono fermati al confine in media 82mila stranieri al mese, più del doppio di oggi. La differenza? Allora cercavano di emigrare al Nord i messicani. Oggi non più. Anzi è in atto un rientro dei messicani in patria, dagli Stati Uniti. Per quanto visibili e drammatici i flussi di oggi vengono da paesi molto più piccoli, soprattutto Honduras El Salvador e Guatemala, afflitti da miseria e violenza. L’economia messicana invece è la nuova locomotiva dell’America latina, più brillante del Brasile nella sua performance recente.

Lo sviluppo messicano sembrava destinato ad accelerare, e proprio grazie a Trump. Un effetto dei dazi sul made in China, è che le esportazioni messicane stanno sostituendo quelle cinesi. A marzo per la prima volta nella storia si è verificato un sorpasso inaudito: il Messico ha superato la Cina per il volume di vendite sul mercato Usa. Tra i settori che brillano c’è la componentistica per auto. Al punto che alcune multinazionali cinesi stanno studiando l’opzione di aprire fabbriche in Messico, per aggirare il fuoco di sbarramento dei superdazi al 25% contro di loro.

Non a caso è stata cauta la prima reazione del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, all’ultimo annuncio di Trump. Anche se questo leader di sinistra eletto di recente è diventato l’anti-Bolsonaro per eccellenza, sta cercando di mantenere dei rapporti decenti col suo potente vicino del Nord. Amlo ha ereditato una revisione del Nafta — il mercato unico nordamericano — tutt’altro che sfavorevole per le imprese che producono a Sud del Rio Grande. Con discrezione, nei mesi scorsi il governo messicano aveva già cominciato a rimpatriare verso l’Honduras e il Guatemala alcune delle carovane.

Trump ha tagliato gli aiuti Usa verso quei paesi intrappolati tra sottosviluppo, corruzione, narcotraffico e dominio delle gang. Il modello messicano potrebbe insegnare a Trump che una via maestra per governare l’immigrazione c’è. Un pezzo di Muro lo costruì Bill Clinton ma non impedì il boom del flusso migratorio negli anni successivi. Ci riuscì invece il decollo del Messico.

Sorgente: Usa, i dazi buoni e quelli cattivi | Rep

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