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Sea Watch, parla Carola Rackete: «Dovevo entrare in porto, temevo che alcuni migranti potessero suicidarsi»

La comandante della Sea Watch 3: «Non volevo andare addosso ai militari, la situazione era disperata. E il mio obiettivo era solo quello di portare a terra persone stremate e ridotte alla disperazione. Avevo paura»

Virginia Piccolillo

Dalla nostra inviata
LAMPEDUSA — «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra». Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch 3 che ha portato a termine la sua operazione di sbarco dei 53 migranti iniziata con un soccorso nelle acque Sar libiche, è pronta ad affrontare le conseguenze giuridiche del suo gesto che le è valso l’arresto in flagranza di reato per violazione delle norme sul blocco navale. Domani o martedì dovrà essere sottoposto al giudizio di convalida. Ma non era pronta alle accuse che le sono piovute addosso dopo aver investito con la Sea Watch 3 la motovedetta della Guardia di Finanza che, a protezione della banchina, le intimava l’alt contro lo sbarco non autorizzato. In un incontro, ieri, con i suoi avvocati dello studio di Alessandro Gamberini, ha parlato tre ore, chiarendo tutte le sue motivazioni del suo gesto. La capitana trentunenne è ai domiciliari e non può rilasciare dichiarazioni, ma attraverso i suoi avvocati chiarisce i dubbi sollevati da più parti sul suo comportamento. E la sua analisi difensiva parte, nella ricostruzione dei legali, proprio da quell’attracco che stava per mettere a repentaglio la vita dei cinque finanzieri giunti a intimarle l’alt.

Perché non si é fermata alla richiesta della Guardia di Finanza?
«È stato un errore».

Un errore di quale genere?
«Solo di avvicinamento alla banchina».

Non c’era la determinazione di non fermarsi?
«Non volevo certo colpire la motovedetta della Guardia di Finanza. Non era mia intenzione mettere in pericolo nessuno. Per questo ho già chiesto scusa e lo rifaccio: sono molto addolorata che sia andata in questo modo».

La sua intenzione invece qual era?
«La situazione era disperata. E il mio obiettivo era solo quello di portare a terra persone stremate e ridotte alla disperazione. Avevo paura».

Paura di cosa?
«Da giorni facevamo i turni, anche di notte, per paura che qualcuno si potesse gettare in mare. E per loro, che non sanno nuotare, significa: suicidio. Temevo il peggio. C’erano stati atti di autolesionismo».

È apparso a molti come un atto violento. Uno speronamento. Non è così?
«Mai, mai, mai nessuno deve pensare che io abbia voluto speronare la motovedetta della Finanza».

Ma non si è fermata all’alt.
«È stata solo disobbedienza. E ho compiuto un errore di valutazione nell’avvicinamento alla banchina».

Cosa ha fatto per evitare la collisione?
«Quando sono entrata in porto sono scesa al livello inferiore dove c’era il primo ufficiale, per consultarmi con lui. Ma non mi ero accorta che la motovedetta fosse così vicina. Ma io avevo comunicato al porto che stavo entrando».

Perché non ha atteso che la situazione diplomatica si sbloccasse e ha deciso di sfidare i divieti?
«Ripeto, erano iniziati atti di autolesionismo tra i migranti. Temevo si arrivasse ai suicidi».

Ma perché ha deciso proprio venerdì notte?
«Quando sono stata convocata per l’interrogatorio fuori della nave ho capito che non saremmo sbarcati. Ho rischiato la libertà. Lo sapevo. Ma non potevo continuare a rischiare che continuassero gli atti autolesionistici. Però ho tentato di avvertire».

Chi?
«Ho chiamato più volte il porto, ma nessuno parlava inglese. Però ho comunicato che noi stavamo arrivando».

Perché si è diretta verso l’Italia, disobbedendo al coordinamento internazionale?
«Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là».

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