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Per la prima volta dopo quindici anni i nostri Btp a cinque anni offrono un rendimento maggiore di quelli ellenici, cioè sono più rischiosi. La forza economica italiana è incomparabile ma quella che è venuta a mancare è la fiducia

di Marco Ruffolo

ROMA – Atene si avvicina. Il brusco risveglio dopo gli annunci di nuove manovre in deficit e la lettera di censura di Bruxelles, si chiama “sindrome greca”. Per la prima volta da una quindicina di anni, i Btp quinquennali si trovano a dover offrire un rendimento superiore a quello dei corrispondenti titoli greci. In altre parole, gli investitori li considerano più rischiosi, e per acquistarli pretendono di conseguenza un tasso maggiore. Sui Buoni decennali, i tassi greci continuano ad essere superiori ai nostri, ma la differenza (ossia lo spread) si è ridotta a una manciata di punti: meno di venti. Con il risultato che adesso, con uno spread tra Btp e Bund tedeschi a che ieri ha sfondato i 290 punti siamo molto più vicini ad Atene che a Madrid o a Lisbona. Una vicinanza che trasforma di nuovo il nostro Paese in un “sorvegliato speciale”. E che evoca fasi della nostra storia recente in cui piazzare titoli pubblici alle aste era diventato sempre più difficile. In questo clima proprio ieri, secondo la Reuters, il Tesoro (che poi ha smentito) avrebbe cancellato l’asta del Btp Italia che tiene regolarmente in primavera perché la domanda era troppo debole.

Non può non colpire il paradosso di una nazione che ha la seconda industria manifatturiera d’Europa, una formidabile forza commerciale, un’enorme ricchezza privata, e che nonostante ciò viene considerata dagli investitori in titoli pubblici solo un po’ meno rischiosa della Grecia. Ovviamente, non basta lo spread a misurare il rischio finanziario di un Paese. Né tanto meno quello economico: il confronto con Atene ci consegna in realtà un abisso incolmabile. La stessa differenza nei “voti” che le agenzie di rating danno ai debiti pubblici dei due Paesi è abissale: l’Italia mantiene, sia pure a livelli piuttosto bassi, l'”investment grade”, ossia un grado di investimento relativamente sicuro, mentre la Grecia è ancora ampiamente al di sotto, nonostante i progressi raggiunti negli ultimi tempi.

Progressi, in realtà, non di poco conto. Un anno fa Atene è uscita dal suo terzo e ultimo piano di salvataggio internazionale. E i mercati hanno subito salutato la fine della fase più acuta dell’emergenza finanziaria con un balzo in Borsa che dall’inizio dell’anno è stato del 26%. I tassi hanno cominciato a scendere, favorendo il rimborso dei debiti e ridando un po’ di fiato all’economia. Il Pil è cresciuto nel 2018 del 1,9% nonostante la frenata di fine anno. Dopo il voto europeo, infine, la vittoria di Nuova Democrazia e l’annuncio di nuove elezioni politiche hanno rafforzato ulteriormente la fiducia dei mercati che si è riflessa nell’abbattimento dello spread con la Germania.

Ritorno alla normalità, dunque? Tutt’altro. La peggiore crisi della storia ha lasciato in Grecia morti e feriti: un quarto di Pil in meno, produzione dimezzata per le piccole e medie imprese, disoccupazione al 30%, solo ora scesa al 18, salari e pensioni confiscati a oltre un milione di persone, un terzo della popolazione vicino alla soglia di povertà. E in tutto questo, il debito pubblico, invece di scendere, è salito al 180% del Pil, sia pure con un allungamento delle scadenze. Il rispetto dell’avanzo di bilancio in cambio dei sostegni finanziari e l’impegno a stringere ancora la cinghia nei prossimi anni, hanno però convinto i mercati che la Grecia potrà finalmente riappropriarsi della propria autonomia accedendo direttamente ai mercati dei capitali internazionali. Di qui la nuova fiducia degli investitori.

Fiducia che invece, fatte le dovute distinzioni, sembra pericolosamente affievolirsi nel nostro Paese. Da una parte, gli investitori non ritengono le misure del governo gialloverde in grado di staccare il nostro Pil dalla malinconica crescita zero. Dall’altra, il debito che torna a salire e soprattutto gli annunci dei due partiti di maggioranza di voler fare la flat tax in deficit (nonostante le rassicurazioni opposte del ministro Tria), non fanno che accrescere le loro preoccupazioni. E insieme ad esse lo spread. Con il conseguente avvicinamento dell’Italia alla Grecia, puntualmente registrato dagli economisti di Via Nazionale nella relazione annuale presentata ieri. “Nella media dell’ultimo quadriennio – dice la Banca d’Italia – il nostro è l’unico Paese dell’area dell’euro, assieme alla Grecia, con un differenziale positivo tra onere medio del debito e crescita. Negli altri Paesi il differenziale è in media negativo, riflettendo, rispetto all’Italia, una crescita economica più sostenuta e in genere un minore onere medio del debito”.

E non basta, perché, secondo la Banca d’Italia, le cose peggioreranno nel 2020, quando l’Italia resterà l’unica nazione (senza più la compagnia di Atene) ad avere un costo del debito superiore alla crescita. In queste condizioni, l’unico modo di ridurre il peso del debito sarà quello di avere ogni anno un avanzo di bilancio tra entrate e spese (esclusi gli interessi) maggiore del 2 per cento del Pil. Altro che misure in deficit.

Sorgente: Peggio della Grecia | Rep

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