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Il caso Lotti fa esplodere l’ipotesi politica della rottura dei renziani. Ma stressa anche la linea del rinnovamento graduale di Zingaretti, perché ora il rischio è una malmostosa convivenza

by Alessandro De Angelis

Ma quale scissione. Per farla ci vuole la volontà, la giusta temperatura, il contesto. Semmai, la parola esatta, in questo momento, è tensione, o confusione. E, magari, il rischio una palude interna, ma questo è un altro discorso. Per capire l’aria che tira, la tentazione di virgolettare un ragionamento di Paola De Micheli, vicesegretario, emiliana verace, è irresistibile. A domanda, di qualche collega, sulle reali intenzioni dei renziani, risponde così: “Ma no… Sono agitati per due questioni: le liste, perché non si capisce quando si vota, e la vicenda Lotti, che insomma dà un’immagine di gran pasturoni, come si dice dalle mie parti. E loro fanno come il coccodrillo che quando prende una botta in testa dà un colpo con la coda”.

Insomma, non sono proprio parole allarmate, anzi. Il colpo di coda sarebbe la giornata dell’orgoglio renziano ad Assisi, la critica al “giustizialismo” di Zingaretti, l’inquietudine della curva reducista, quella sì che uscirebbe domani mattina, le varie Morani, Rotta, Faraone perché “questa non è casa nostra, è casa loro”. Ma bastava scambiare due chiacchiere con Roberto Giachetti, dopo l’iniziativa di Assisi per capire che l’orizzonte, anche per il grosso del mondo renziano è un altro: “E perché ce ne dovremmo andare? Loro volevano che ce ne andassimo per rifare Ds e Margherita, lo teorizzavano. Ma io sto dentro e faccio politica, senza rivendicare posti”. Altri, invece, stanno dentro su una linea molto più dialogante, sulla politica e sui posti, da sempre, sin da quando si intavolò la discussione sugli organigrammi e Lotti chiese un posto da vicesegretario, senza però cedere su almeno uno dei capigruppo, incarico non banale. Poi la sua vicenda ha travolto tutto, rendendo più confusa la formazione della segretaria su cui c’era stato, eccome, un dialogo, poi rifiutato e interrotto col suo “passo indietro”.

A voler ridurre tutto, maliziosamente, a una questione di posti si potrebbe continuare raccontando che il “filo” non è interrotto con la corrente di Guerini, adesso che c’è da nominare i dipartimenti e da assegnare qualche altro incarico. Ma la questione politica più generale è meno noiosa. Continuiamo ad ascoltare la De Micheli: “Nicola sta facendo uno sforzo titanico per tenere tutto assieme. Ma, dico io, finalmente c’è un segretario normale e c’è qualcuno che rimpiange i metodi di quelli che c’erano prima?”. Perché il punto è proprio questo, il “metodo” di Zingaretti, che tanto assomiglia a quella tortura cinese di chi ti affoga in un barile di miele. Un metodo per cui le dimissioni non si chiedono, ma si ottengono come se fossero una libera scelta dell’interessato, un gesto di “responsabilità” da lodare, non uno scalpo da agitare, come accadeva nei partiti di una volta, nell’era pre-rottamazione. È l’antica cultura partitista, ossessionata dal rovello unitario, poco incline allo strappo, all’accelerazione, che rifugge la logica della politica come, innanzitutto, primato della comunicazione. È accaduto con la Marini, scossa di lieve intensità. È accaduto con Lotti, sisma nient’affatto banale come intensità.

Proprio perché non è banale, però, ha degli effetti sul Pd nel suo insieme. Dicevamo, la scissione, termine scomparso (per ora), anche nei ragionamenti. Perché, parliamoci chiaro, si può rompere su tante cose più o meno nobili, più o meno di sinistra, su questo o quel provvedimento, su questa o quella politica di alleanze o ipotesi politica, ma è assai complicato dire “io me ne vado” perché “è giusto brigare sulle nomine del Csm e sui vertici delle procure che mi indagano, ma il mio partito lo considera inopportuno”. È complicato assai, andarsene sventolando la bandiera dell’opacità travestita da garantismo e senza più neanche la maschera della vittima che “vorrebbe fare ma non può per colpa loro”, perché la vicenda racconta non di un esilio politico, ma di un potere che consuma i suoi orgasmi anche in una stanza di albergo. Ed è complicato su una vicenda ancora in fieri, con uno stillicidio quotidiano di intercettazioni. E con il timore, qualcuno lo sussurra a microfoni spenti, che ciò che ad oggi sembra solo politicamente inopportuno e moralmente discutibile possa diventare penalmente rilevante per qualche procura, nell’era dello spazzacorrotti e del traffico di influenza. Forse anche per questo descrivono Lotti “come interamente preso dalla sua vicenda, poco concentrato sulle questioni politiche interne al Pd”.

Ecco, l’idea di andarsene non c’è più. Non a caso Renzi sta fermo, consapevole, dice qualcuno dei suoi, che “a 40 anni, se sbaglia questa, a quel punto è finita davvero in questo contesto e in un quadro in cui non si capisce quando si vota”. Ma proprio questa trasformazione della guerra di movimento in guerra di posizione sulla vicenda Lotti, muta radicalmente lo scenario dentro il Pd. Il rischio non è più la scissione, ma una malmostosa convivenza. Che riguarda anche il “metodo Zingaretti”, fondato sul rinnovamento graduale, senza strappi, perché adesso lo strappo è nelle cose e “stressa” oggettivamente quell’idea di andare “oltre” il renzismo, senza andare “contro”, ora che un trojan ne rivela le modalità di gestione del potere e, con essa, l’essenza stessa di quella fase politica. La sua “cultura”. Il partito è rimasto e rimarrà insieme, ma l’unità è solo una belligerante convivenza, con la catarsi affidata alla prossima intercettazione o a qualche indagine di qualche procura che renderà non rinviabile la grande denuncia politica e morale, a costo magari di perdere qualche pezzo.

Sorgente: Ma quale scissione! | L’HuffPost

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