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Ormai si è affermato il mito, più che il modello, della “democrazia diretta”. Che restituisce lo scettro ai cittadini. La prima conseguenza di questi processi è la iper-personalizzazione dei soggetti politici

di Ilvo Diamanti

La nostra democrazia sta cambiando profondamente. E rapidamente. Insieme alle istituzioni e ai principi costitutivi. Il Parlamento, i partiti. Il presidente della Repubblica. La magistratura. Soggetti e attori in mutamento continuo. Messi in discussione, di continuo. Basti pensare alle polemiche che hanno coinvolto il Csm, negli ultimi giorni. Mentre la nostra posizione nell’Unione europea, di cui siamo “soci fondatori” fra i più importanti, si fa sempre più critica. Così è difficile rammentare da dove siamo partiti…

Dove eravamo rimasti. Pochi anni fa. Pochi mesi fa. Perché, anche se spesso si preferisce dimenticarlo, l’Italia è una democrazia “rappresentativa”. Fondata sulla “rappresentanza”. E, dunque, sulle assemblee elettive. Dove agiscono i “rappresentanti” dei cittadini. Gli “eletti”. Termine che echeggia le élites. E spiega perché gli eletti e le camere del Parlamento, dove siedono, suscitino, da qualche tempo, tanta diffidenza. Tanta ostilità. Le élite, gli eletti: riassumono i bersagli della critica e del rifiuto del “popolo sovrano”, che non accetta più, comunque, sopporta sempre meno, le élite.

Elette oppure no, non importa… O meglio, importa. Perché ormai si è affermato il mito, più che il modello, della “democrazia diretta”. Che restituisce lo scettro ai cittadini. Senza mediazioni. Senza mediatori. Una “democrazia im-mediata”, nella quale gli elettori scelgono i loro “capi” in modo più che diretto. Immediato. Attraverso riti di partecipazione collettiva. Come le primarie del Pd. Ma, soprattutto, “in rete”, come fa il M5s, attraverso una piattaforma digitale, che permette ai militanti e ai simpatizzanti di esprimere le proprie preferenze, senza mediazioni. In modo immediato. Appunto. Non importa quanto sia ampia, oppure stretta, la base dei partecipanti. E non importa se qualcuno, più di altri, sia in grado di orientare le scelte. L’importante è celebrare il rito e il mito della democrazia senza mediazioni e senza mediatori.

La prima conseguenza di questi processi è la iper-personalizzazione dei soggetti politici. Non solo dei partiti. Così, in modo più o meno accentuato, i partiti si sono identificati con i leader. E i leader, ormai, contano più dei partiti. Il Pd è stato ri-disegnato da Renzi. È divenuto PdR. Per tornare al partito originario, ci sono volute le primarie. Nelle quali il Popolo del Pd ha espresso il suo nuovo Capo. Nicola Zingaretti. Che, tuttavia, non pare in grado di Personalizzare il Pd a sua immagine. Di sfidare la Lega. Che oggi è il partito di Salvini. Un’altra Lega, rispetto a prima. Quando galleggiava intorno al 4 per cento. Il M5s, a sua volta, naviga a fatica. Perché dieci anni fa era il partito di Grillo. Ma poi è divenuto un non-partito. Un autobus, avevo scritto alcuni anni fa. Sul quale era possibile salire.

Bastava pagare il biglietto e scendere, quando si era arrivati alla fermata voluta. Il M5s: ha trasportato tantissimi passeggeri. Soprattutto un anno fa. Ma molti sono già scesi. Per salire sull’autobus di Salvini. Oppure sono rimasti in attesa di un altro veicolo. Di un altro pilota da (in)seguire. Così, il presidente è divenuto un riferimento obbligato.

Il grado di consenso “personale” raggiunto da Mattarella, lo scorso autunno, è arrivato al 65 per cento. Superiore a tutti i leader politici e di governo. Allo stesso Salvini. E a Di Maio. Mentre la fiducia verso il presidente della Repubblica, come istituzione, nell’ultimo rapporto Gli italiani e lo Stato, realizzato alla fine del 2018, ha raggiunto il 56 per cento. Superando di 10 punti il livello dell’anno precedente. Si tratta di 14 punti più dei magistrati. Ma circa il doppio rispetto allo stato. E oltre 20 punti più della Ue.

Per questo mi pare utile riproporre la formula di “presidenzialismo prudenziale”. In altri termini: il presidente è divenuto non solo il garante, ma anche un appiglio. Un’àncora. Non solo per chi sostiene le ragioni della democrazia rappresentativa. Ma anche per chi vorrebbe andare oltre. Senza, però, correre il rischio di sprofondare. Nella “terra di nessuno”. Oltre la democrazia. Fuori dall’Euro. E dall’Europa. Perché gli italiani non amano l’Unione europea, tanto meno l’Euro, ma non vogliono restarne fuori. Per prudenza. Così, si affidano al Capitano. Che intercetta la s-fiducia di tanti elettori, ormai scivolati a destra. Gli stessi cattolici: credono quasi più a lui che a Papa Francesco. Sensibile alle domande dei poveri e dei migranti. Dei poveri migranti. Troppo. Per non generare sospetto in un Paese dove in tanti si sentono ultimi. Penultimi. Comunque, ai margini.

Così non resta che Mattarella a “mediare”. Fra élite e cittadini. Fra governo e opposizione. Fra le due facce del governo. Tanto più oggi, che lo squilibrio fra peso politico e parlamentare di Lega e M5s, dopo le recenti elezioni, è divenuto palese. Stridente. Mentre perfino il M5s è diviso. All’interno.
Così rimasto solo lui a “mediare” fra l’Europa e l’Italia. Fra la domanda di Giustizia e le “istituzioni ingiuste” che la regolano. A rilanciare una nuova “questione morale”, quasi quarant’anni dopo Enrico Berlinguer, come ha rammentato Massimo Giannini nei giorni scorsi.

In questa democrazia im-mediata, il compito gravoso, ma necessario, della mediazione spetta al presidente. Sergio Mattarella. Il garante della democrazia rappresentativa. Un sistema con molti limiti, molte varianti, molte tensioni. Ma ancora difficile da sostituire. Almeno, nelle attuali condizioni. Perché, parafrasando Churchill: «La democrazia rappresentativa è la peggior forma di governo democratico, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora».

Sorgente: Il grande mediatore | Rep

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