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I dipendenti a rischio sono oltre 300 mila se si conta anche l’indotto.Pochi effetti dal decreto Dignità e dalle norme contro chi delocalizza

di MARCO PATUCCHI

ROMA – Parigi e Taranto non sono mai sembrate così lontane come in questi giorni di inizio estate. Anni luce di distanza. Il governo francese, nel considerare il progetto Fca-Renault “una reale opportunità per il Paese”, ha invocato (e di fatto ottenuto) garanzie per l’interesse nazionale e per l’occupazione, oltre che un posto in cda. Più o meno nelle stesse ore, mentre ArcelorMittal annunciava a sorpresa la cassa integrazione per 1.400 operai della ex-Ilva di Taranto, esplodeva invece il fragoroso silenzio del nostro governo.

Certo, lo Stato transalpino è azionista di Renault. Ma il dettaglio non ridimensiona di un centimetro quadrato il deserto della politica industriale italiana. Se ne sono finalmente accorti i sindacati, che pure avevano salutato come un segnale di inversione culturale i decreti Dignità, le leggi anti-delocalizzazioni e i salari minimi, sbandierati dall’esecutivo gialloverde. Cioè le misure che, nelle intenzioni del vicepremier e ministro Luigi Di Maio, avrebbero dovuto contrastare il declino. Ma se ne sono accorti soprattutto i 242 mila lavoratori simbolicamente seduti ai 158 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo Economico, che diventano oltre 300 mila se si conta anche l’indotto, cioè i più disperati tra i disperati: numeri in crescita da inizio anno, quando le emergenze erano “solo” 138. Così come la cassa integrazione straordinaria, termometro delle crisi più gravi e delle ristrutturazioni, salita ad aprile del 78% sullo stesso mese del 2018.

Secondo le elaborazioni del centro studi Lavoro&Welfare, nei primi tre mesi del 2019 il ricorso alla cassa (sia ordinaria che straordinaria) ha significato una perdita complessiva di reddito per gli operai superiore a 272 milioni di euro. Ecco cosa sono, in carne e ossa, i working poor ai quali nessun reddito di cittadinanza restituirà la dignità del lavoro.

“Nonostante la contrazione dei livelli di attività subita negli anni della crisi, e nonostante il crescente diffondersi dello sviluppo industriale verso nuove aree economiche – scrive la Confindustria nel Rapporto 2019 – l’Italia è ancora la settima potenza manifatturiera del mondo”. Ma esistono “diverse Italie” industriali. C’è una manciata di aziende del Nord – agroalimentare, moda, macchinari… – che combatte egregiamente sui mercati internazionali, che investe e innova, ma ci sono anche i grandi gruppi del capitalismo storico che hanno scommesso solo su finanza o ex-monopoli. E c’è soprattutto l’industria del Sud che non si è mai più ripresa dal declino delle Partecipazioni statali e dalla disillusione dei piani per il Mezzogiorno che ogni governo della Repubblica ha puntualmente annunciato salvo poi dimenticarsene.

Si spiegano anche così, al di là delle scorrerie delle multinazionali “mordi e delocalizza”, i 400 operai della Whirlpool di Napoli privati del futuro da un giorno all’altro. E sono prevalentemente nel Sud le catene medio-piccole della distribuzione commerciale che chiudono nel cono d’ombra delle crisi più eclatanti, tipo MercatoneUno. Anche la siderurgia è attraversata da un “parallelo”: le acciaierie settentrionali crescono e investono in innovazione, una su tutte la Arvedi, mentre da Piombino in giù si arranca. E poi Termini Imerese, dove il sogno di uno sviluppo siciliano nato negli anni Settanta è diventato un incubo con la fuga della Fiat nel 2011 e con i successivi, velleitari progetti di rilancio.

Senza che Di Maio, nonostante le promesse, richiamasse mai Torino a farsi carico, almeno come committente, della sopravvivenza della fabbrica. Un richiamo venuto meno anche nel caso della Bekaert, azienda vittima della delocalizzazione della multinazionale belga: anche qui l’esecutivo avrebbe dovuto spingere il precedente proprietario, Pirelli, a garantire gli ordini essenziali al rilancio dello stabilimento. Ma non lo ha fatto. Nel Sulcis, la ex-Alcoa attende solo il taglio del costo dell’energia per ripartire, Di Maio però non si muove, anche per non portare a compimento un salvataggio in gran parte realizzato dal suo predecessore Calenda. Promessa mancata pure all’Industria italiana autobus che ad Avellino (e a Bologna) non produce più un pullman da anni: sempre Di Maio era arrivato a ingaggiare, salvo fare poi retromarcia, le Fs. Un imperdonabile paradosso gialloverde, visto che l’Atac di Virginia Raggi ha dovuto acquistare i bus in Israele e in Turchia.

Sorgente: Crisi industriali: tagli all’orario e chiusure, in fumo 272 milioni di reddito | Rep

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