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È passata quasi in sordina l’approvazione da parte della Camera in seconda lettura della riforma costituzionale che taglia il numero di senatori e deputati e della riforma elettorale, il 13 maggio, che permette di applicare l’attuale sistema alle future Camere in formato mignon.
scritto da GIOVANNI INNAMORATI 21 Maggio 2019

È passata quasi in sordina, con un basso grado di coinvolgimento dell’opinione pubblica e con poca attenzione da parte dei quotidiani, l’approvazione da parte della Camera in seconda lettura, il 9 maggio scorso, della riforma costituzionale che taglia il numero di senatori e deputati e della riforma elettorale, il 13 maggio, che permette di applicare l’attuale sistema alle future Camere in formato mignon.

In queste righe vorrei spiegare ai lettori di ytali.com sia l’impatto – negativo – sulle nostre istituzioni, sia il significato politico, delle due riforme e del loro combinato disposto. La Camera ha confermato il testo delle due riforme in precedenza approvate dal Senato, quindi quella elettorale è legge dello stato mentre quella costituzionale ha bisogno della seconda lettura conforme da parte dei due rami del Parlamento, che non potrà modificare il testo ma solo approvarlo in via definitiva o respingerlo.

La cosa più sorprendente per me, che faccio il cronista parlamentare da oltre venticinque anni, è la totale inconsapevolezza da parte dell’opinione pubblica di quanto sta accadendo, anche dell’opinione pubblica ristretta degli specialisti – costituzionalisti, politologi, ecc – che con il loro silenzio evidentemente assentono, tranne rare eccezioni, come il professore Massimo Villone o il professore Gaetano Azzariti, che hanno fatto sentire la loro voce su il manifesto, unico quotidiano che ha seguito con intelligenza queste riforme, grazie ad Andrea Fabozzi. E tranne diversi altri che durante le audizioni in commissione affari costituzionali hanno sottolineato gli aspetti negativi.

Riccardo Fraccaro (M5s), ministro delle riforme del governo Conte

La riforma costituzionale riduce da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 quello dei senatori. Si tratta di una proposta di legge formalmente di iniziativa parlamentare, dato che è stata depositata in Senato dai capigruppo di Lega e M5s e da Roberto Calderoli, ma sostenuta dal governo, tanto è vero che il ministro Riccardo Fraccaro nelle audizioni alle Camere dopo l’insediamento, il 12 luglio 2018, aveva indicato questa riforma (assieme a quella sul referendum propositivo) come parte del programma di governo, essendo anche nel famoso contratto di governo. Sia i proponenti che il ministro Fraccaro hanno indicato due motivazioni in questa riforma: ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare e rendere i lavori parlamentari più snelli ed efficienti.

La prima motivazione viene giustificata col fatto che l’Italia ha il più alto numero di parlamentari eletti tra tutti i paesi europei (945), ma si omette di dire che tutti questi paesi hanno una sola Camera politica di natura elettiva, con un numero di deputati analogo a quello italiano (Gran Bretagna 650, Francia 577, Germania 709 in questa legislatura) mentre in Senato siedono rappresentanti delle entità territoriali con funzioni diverse da quelle della Camera.

La seconda motivazione, poi, non viene affatto argomentata: perché con meno deputati e senatori i lavori sarebbero più efficienti se manteniamo – unici in Europa – il farraginoso sistema del bicameralismo perfetto? Forse perché con un minor numero di parlamentari ci sarebbe un minor numero di interventi? Ma già oggi c’è il contingentamento dei tempi nei regolamenti delle due Camere. Forse meno emendamenti? Anche questa è una sciocchezza: infatti, visto che ogni parlamentare può presentare quanti emendamenti vuole, nulla impedirebbe ai futuri 400 deputati e 200 senatori di presentarne in numero maggiore rispetto a quelli che oggi depositano.

La snellezza dei lavori dipende dalla razionalità dei regolamenti, a meno che si punti a un minor numero non di emendamenti ma di idee e di approcci ai problemi. Piuttosto ho potuto constatare la preoccupazione dei funzionari di Montecitorio e Palazzo Madama che la sforbiciata così forte di eletti renderà complicato il funzionamento degli organismi bicamerali (vigilanza Rai, Copasir, antimafia, ecc), che avranno difficoltà a riunirsi.

Inoltre specie in Senato, una riduzione così drastica impoverirà le competenze delle quattordici commissioni permanenti, che sono i luoghi dove si esaminano a fondo i provvedimenti di legge prima che giungano in Aula. Ciascuna di esse non sarà più composta da circa venti senatori, ma da dodici-tredici. I gruppi maggiori potranno mandare in ciascuna di esse due o al massimo tre parlamentari, quelli medi e piccoli solo uno. Ciascun senatore dovrà occuparsi di tutti gli ambiti di competenza della commissione, senza possibilità di specializzazione e di approfondimento, il che renderà ancora più povera l’interlocuzione con i rappresentanti delle categorie. Ogni senatore della commissione agricoltura, possiamo domandarci, padroneggerà effettivamente tutto lo scibile di cui si occupa la commissione? La xylella, il fermo biologico nella pesca, la peste suina, le quote latte, la concentrazione di succo di arancia nelle bibite, ecc.

E questo vale per tutte le altre commissioni. I parlamentari non potranno che affidarsi ai tecnici e agli uffici legislativi dei ministeri, con un depotenziamento del ruolo del Parlamento. Il superamento della democrazia parlamentare, preconizzato da Davide Casaleggio il 23 luglio in un’intervista al quotidiano La Verità, compie i suoi primi decisi passi.

Durante il dibattito in Commissione il Pd (Stefano Ceccanti) e Più Europa (Riccardo Magi) hanno proposto degli emendamenti con un modello alternativo: superamento del bicameralismo perfetto, con una sola Camera politica di 500 deputati e un Senato in cui siedono i rappresentati delle autonomie locali: qualcosa di assai simile alla riforma Renzi-Boschi. Tuttavia gli emendamenti non sono stati nemmeno discussi e votati, dato che il presidente della Commissione, Giuseppe Brescia (M5s), li ha dichiarati inammissibili per estraneità di materia il 16 aprile.

Il regolamento della Camera (articolo 89) stabilisce che siano inammissibili gli emendamenti “con argomenti affatto estranei all’oggetto della discussione”. Brescia ha spiegato che dato che la riforma in discussione riguardava “esclusivamente la modifica di norme costituzionali (gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione) recanti il numero dei componenti di Camera e Senato”, gli emendamenti che concernevano le funzioni delle due Camere fossero da considerarsi “affatto estranei” alla discussione.

Quest’interpretazione è stata confermata in Aula dal presidente Roberto Fico il 7 maggio. Va sottolineato che se fossero stati messi ai voti questi emendamenti, sia in Commissione che in Aula, sarebbero stati respinti, essendo pochissimi. La giustificazione teorica del ritenere “affatto estranei” due temi in realtà connessi (numero dei parlamentari e funzioni delle Camere), sta nel fatto – ripetuto dal ministro Fraccaro – che la maggioranza giallo-verde vuole proporre riforme “puntuali” che se saranno sottoposte a referendum permettano ai cittadini una scelta semplice e immediata.

Riccardo Magi, deputato di Più Europa

La fallacia di tale ragionamento si evince dal fatto che attraverso una molteplicità di riforme “puntuali” si altera l’architettura della Costituzione che è un sistema, dove tutti gli elementi sono legati. Oltre al numero dei parlamentari, infatti, la maggioranza sta intervenendo sul referendum propositivo, che riguarda le funzioni delle Camere, e sull’avvio dell’autonomia differenziata per alcune regioni (in attuazione dell’articolo 116, comma tre della Costituzione), che implicherebbe necessariamente la trasformazione del Senato in una Camera degli enti territoriali: infatti avremo cinque regioni a statuto speciale, una serie di regioni con gradi diversi di autonomia differenziata e regioni ordinarie, il che porrà problemi nella distribuzione delle risorse per assicurare i livelli essenziali di prestazione (Lep), che non sono ancora stati definiti.

Molti hanno sottolineato come col taglio del numero dei parlamentari venga sacrificata la rappresentanza, specie in Senato, dato che la soglia implicita è assai superiore al tre per cento del Rosatellum. In Senato, infatti, l’elezione è su base regionale e non c’è un recupero nazionale; quindi nelle regioni di medie dimensioni demografiche eleggeranno senatori solo i partiti oltre il venti per cento, cioè M5s, Lega e Pd. Per esempio in Friuli e in Abruzzo da sette senatori si passa a quattro, in Liguria, nelle Marche e in Sardegna da otto a cinque, in Umbria e in Basilicata da sette addirittura a tre. Forza Italia anche se si tenesse oltre il dieci per cento porterebbe a Palazzo Madama una manciata di senatori solo nelle grandi regioni, e altrettanto Fdi e i partiti della sinistra.

In Aula l’ha sottolineato, oltre al Pd e a Riccardo Magi di Più Europa, anche Federico Fornaro, capogruppo di Leu, mentre Fdi e Fi, hanno addirittura votato a favore della riforma. Dentro Fi solo Simone Baldelli ha condotto una battaglia in solitaria, con venticinque interventi in Aula, anche se alla fine in dissenso dal gruppo hanno votato anche Guido Pettarin, Carlo Fatuzzo e Fucsia Fitzgerald.

Ad aggravare la situazione c’è anche la mancanza di una norma transitoria riguardante i regolamenti parlamentari, che era stata evidenziata durante le audizioni in commissioni affari costituzionali soprattutto dal professore Salvatore Curreri, dell’Università Kore di Enna, e dalla professoressa Ginevra Cerrini Feroni. I regolamenti di Camera e Senato stabiliscono che per formare un gruppo occorra avere, rispettivamente, venti e dieci eletti. Con la sforbiciata di oltre il 35 per cento dei parlamentari in ciascuna Camera partiti anche delle dimensioni di Fi o più piccoli (specie in Senato, abbiamo visto), faticheranno a raggiungere questi numeri.

Avere il proprio gruppo parlamentare significa avere agibilità politica: significa essere presente alla capigruppo (che decide il calendario) o nell’ufficio di presidenza (che ha poteri disciplinari interni), significa avere propri esponenti nelle commissioni permanenti e in quelle bicamerali di controllo (vigilanza Rai, Copasir, ecc), significa poter avere tempi garantiti nelle discussioni in Aula, implica avere propri fondi, ecc.

Curreri nell’audizione aveva sollecitato a mettere mano, parallelamente alla riforma costituzionale, anche a una revisione dei regolamenti, com’era stato fatto nella scorsa legislatura, quando Camera e Senato avviarono una riforma dei regolamenti in vista della riforma Renzi-Boschi, poi naufragata con il referendum del 4 dicembre 2016. La sollecitazione del professor Curreri è caduta nel vuoto, come quella di una norma transitoria in cui si stabilisse che fino alla modifica dei regolamenti di Montecitorio e Palazzo Madama nella nuova dimensione “mignon”, i numeri per formare un gruppo fossero ridotti nella stessa percentuale del taglio di senatori e deputati (tre ottavi, o 36 per cento).

Va ricordato che da quando esiste il costituzionalismo ogni volta che si interviene nella definizione di un’assemblea elettiva si inserisce una norma transitoria che stabilisce i regolamenti provvisori: il decreto luogotenenziale del 31 agosto 1945 che avviò la Consulta (il Parlamento provvisorio) aveva una norma transitoria in cui si diceva che si applicava il regolamento della Camera pre-fascista fin tanto che la Consulta non avesse un proprio regolamento; altrettanto fece il decreto luogotenenziale del 16 marzo 1946 che avviò l’elezione della Consulta.

E tutte le riforme messe in cantiere nei decenni successivi alla Costituzione hanno sempre avuto una norma transitoria in tal senso. Non si tratta di una tecnicalità ma di una norma di garanzia per le future minoranze. Vista l’assenza di tale norma, Riccardo Magi aveva presentato in Aula un emendamento che introduceva la norma transitoria, ma era stato bocciato senza che i relatori (Anna Macina di M5s e Igor Iezzi della Lega) o qualcuno della maggioranza ne motivasse il rifiuto.

Il costituzionalista Stefano Ceccanti

Qualcuno ha affermato che non si voleva introdurre alcuna modifica al testo del Senato per concludere la prima delle due letture previste dalle riforme costituzionali, in chiave elettorale. L’ha detto in Aula nelle dichiarazioni di voto a nome del Pd Stefano Ceccanti, e a dargli ragione, subito dopo c’ha pensato il leghista Alberto Stefani:

Davvero credete che fuori da questo palazzo ci siano milioni di persone che sono disposte a credervi, quando dite che tagliare i parlamentari è un atto demagogico? Davvero credete che fuori da questo palazzo ci siano milioni di italiani che sono disposti a credere che tagliare i parlamentari significa creare un vulnus alla democrazia? Davvero credete che non ci siano milioni di italiani che capiscano che tra le vostre motivazioni non si annidi la paura di non essere rieletti in questo Parlamento?

Non proprio argomenti in punta di diritto costituzionale! E tuttavia l’assenza di una norma di garanzia sui futuri gruppi rimane e nessuno, anche in semplici dichiarazioni di impegno, ha dato risposta. Rimane la domanda sulla consapevolezza di Forza Italia e Fdi di essersi consegnati alla volontà del loro alleato leghista.

Questo è ancor più vero se osserviamo il combinato disposto della riforma costituzionale con quella elettorale. Apparentemente quest’ultima è neutra: prescrive che i collegi uninominali e le circoscrizioni proporzionali del Rosatellum bis, oggi in vigore, vengano ridotti dei tre ottavi, attraverso un decreto legislativo del governo, dopo l’eventuale approvazione definitiva della riforma taglia-parlamentari. Insomma sembra solo una questione di numeri.

Ma se inforchiamo gli occhiali da presbite e guardiamo da vicino, vediamo che così non è. I collegi uninominali della Camera, scendono da 232 a 147; il numero medio di elettori in ciascuno di essi sale da 256 mila a 404.311, per l’esattezza. In Senato i 74 collegi uninominali avranno addirittura una dimensione monstre: 803.158. Non sono più collegi uninominali. I sistemi con i collegi uninominali (per esempio in Gran Bretagna, in Francia e, con un sistema misto, in Germania) sono pensati per avvicinare eletto ad elettore, il che implica dimensioni del collegio ridotte, intorno ai 150mila. Già quelli del Rosatellum bis erano troppo grandi, ma questi hanno la dimensione di una circoscrizione proporzionale. Il rapporto tra eletto ed elettore va a farsi benedire.

Avremo quindi, specie al Senato e in parte anche alla Camera, parlamentari del tutto slegati dal territorio e dagli elettori; impossibilitati a specializzarsi e quindi in balia dei tecnici, dei portatori di interessi e degli uffici ministeriali. Il tutto mentre i compiti del Parlamento sono accresciuti nel rapporto con l’Unione europea (processo ascendente e discendente) e nel coordinamento con le competenze delle regioni.

E visto che a pensar male – diceva Giulio Andreotti – si fa peccato ma spesso ci si azzecca, cresce il sospetto che dietro tante micro riforme puntiformi ci sia il disegno di quella post-democrazia tecnocratica, evocata da Davide Casaleggio nelle sue interviste.

La riforma Renzi-Boschi era chiara nel suo disegno. La maggioranza Lega-M5s mentre procede a suon di interventi puntiformi ha affermato più volte, con il ministro Fraccaro, di avere un disegno organico, che però non viene esplicitato e resta imperscrutabile agli occhi dei non specialisti.

Sorgente: ytali. – Cambiano il parlamento. Perché non se ne parla?

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