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Il leghista all’alleato: «La dovete finire di attaccarmi». Il 5 Stelle: «Forse non ti ricordi le tue visite sulla Tav, le assurdità sulla Via della Seta, gli sconfinamenti di campo. E il martellamento sulla Raggi e Roma»

di Alessandro Trocino

ROMA — Un duello all’arma bianca, senza strepiti né fendenti definitivi, ma con i due sfidanti che si guardano minacciosi e provano a infilzarsi, sotto lo sguardo attento dell’arbitro/premier che ricorda continuamente ai contendenti di restare dentro le regole cavalleresche. Il Consiglio dei ministri forse più teso dall’inizio del governo comincia con il premier, Giuseppe Conte, che fissa i paletti e riepiloga la vicenda. Tutti presenti, tranne i ministri Moavero e Tria (qualcuno tra i 5 Stelle maligna: «Si sono fatti mandare all’estero perché avevano paura che si votasse su Siri»).

Il presidente del Consiglio, che teme colpi di mano da parte di Salvini, mette subito in chiaro il suo ruolo, citando l’articolo 95 della Costituzione: «Io sono il presidente del Consiglio, dirigo la politica generale del governo e ne sono responsabile. Tocca a me mantenere l’unità di indirizzo politico. E ogni atto di un membro del governo è compiuto anche in mio nome e deve essere condiviso. Per questo, la decisione che vi propongo, revocare il sottosegretario Siri, è una mia scelta. E quello che vi chiedo oggi è di confermare la vostra fiducia a me».

Un colpo di scena, un aut aut che mette il governo nella condizione di dare il via libera senza spaccature. Conte non lo dice, ma il senso è: il premier sono io, decido io e se qualcuno non è d’accordo, la storia finisce qui. Un preludio così deciso, una rivendicazione di autonoma così forte, stupisce ma raggiunge il suo scopo. Conte riepiloga la vicenda Siri. Spiega che la decisione non è giudiziaria e sebbene sia avvocato, parla da politico: «Siri ha agito da sottosegretario, per un fatto privato non per interesse generale, questa è la cosa più grave. Come faccio a fidarmi ancora?». Il premier spiega che non si tornerà indietro: «Dovesse risultare innocente, e glielo auguro, non cambierebbe questa decisione, che è di opportunità politica». Poi rivendica la sua imparzialità, dopo le accuse leghiste di essersi schierato con i 5 Stelle, e ricorda il caso Diciotti. All’avvocato Conte, replica la collega Giulia Bongiorno, che ormai oltre che da ministro per la Pubblica Amministrazione agisce quasi da legale della Lega e di Salvini. Riepiloga le incongruenze del caso, spiega che non ci sono prove e aggiunge: «In uno Stato di diritto, non si decide la sorte di una persona per un titolo di giornale. Cosa succederebbe se domani arrivasse un avviso di garanzia a un altro membro del governo?».

Ma la fase calda è nello scontro tra Salvini e Di Maio. I due non si parlano da settimane, né dal vivo né via telefono. Si sono visti a Tunisi, l’ultima volta il primo maggio, viaggiando separatamente e salutandosi a stento. Il gelo è totale. Salvini attacca subito: «La dovete finire di attaccarmi. Non passa giorno senza che qualcuno dei vostri insulti, attacchi, cerchi lo scontro». Tocca a Di Maio, che restituisce i fendenti: «Ma come, dici a noi che ti attacchiamo? Ma forse non ti ricordi le tue visite sulla Tav, le assurdità sulla Via della Seta, gli sconfinamenti di campo continui. E il martellamento sulla Raggi e Roma». Cresce il gelo, fino a quando il presidente Conte prende la parola per la replica. E conclude: «Vi chiedo un atto di fiducia nei miei confronti». Poi esce dalla sala e torna, dopo la verbalizzazione di Giancarlo Giorgetti che mette in chiaro l’unanimità, sia pure con i distinguo di Salvini. I saluti sono freddi, formali. Conte porta a casa una vittoria, non la prima. Di Maio anche. Salvini non fa in tempo a uscire, che comincia a bombardare: «La Raggi è indagata da anni e continua a fare il sindaco. Perché?».

Sorgente: Salvini-Di Maio, gelo e attacchi in Consiglio dei ministri. Poi Conte li spiazza: «In gioco la fiducia a me»

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