
L’operazione della Guardia di Finanza è iniziata nel 2017 dopo aver individuato 25 migranti con vestiti a brandelli e scarpe rotte che si stavano recando a lavorare in una campagna di Tenno. Tre persone sono indagate e le indagini hanno portato alla luce una rete di sfruttamento che ha coinvolto oltre 200 migranti
TRENTO. Sfruttati per la propria disperazione, messi alla cinque di mattina in vecchi furgoni stipati come sardine, coperti da vestiti stracciati e scarpe rotte, per essere portati nella campagne trentine a lavorare per un’intera giornata ricevendo anche poco più di un’euro all’ora.
E’ l’ennesima terribile storia di caporalato quella che la Guardia Finanza di Riva del Garda è riuscita a portare a galla dopo un lavoro di indagine che ha visto la collaborazione dell’Inps di Brescia. Le vittime sono tante, 25 braccianti sfruttati in una azienda agricola trentina, nelle campagne di Tenno, ma in tutto sarebbero oltre 200 quelli che costituivano la rete di sfruttamento e mandati nelle campagne del nord Italia.
A far partire le indagini è stata un’operazione della polizia locale Alto Garda e Ledro (Qui raccontata) con l’ausilio degli agenti del commissariato di polizia di Riva che nel settembre del 2017 si erano mossi dopo una segnalazione ben precisa di alcune persone che aveva osservato dei migranti muoversi dalle campagne e il loro arrivo in furgoni provenienti da Brescia.
Le forze dell’ordine sono riuscite e individuare gli orari di passaggio e a fermare alcuni di questi mezzi provenienti da Brescia. In un furgone da 9 posti viaggiavano in 16 e in un’auto da 7 ne salivano altri 9. Tutti stranieri, alcuni fatti salire sui furgoni appena fuori dai centri di accoglienza bresciani.
Gli agenti che nel settembre del 2017 hanno fermato uno di questi mezzi si sono trovati davanti uomini dai 30 ai 50 anni, di etnia indiana e africana, alcuni con le scarpe rotte, disperati per non aver nulla e proprio per questo sfruttati da un caporale. Sono stati le prime 25 vittime di caporalato dell’operazione chiamata poi “Oro Verde” dalle quali la Guardia di Finanza di Riva del Garda è partita per scoprire una rete di sfruttamento del lavoro che ha toccato oltre il Trentino anche la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia Romagna.
Erano 25 braccianti che un caporale bresciano, un indiano di 29, aveva “venduto” ad un agricoltore trentino di 36 anni. Venivano impiegati nella vendemmia e della raccolta di frutta e verdura di vario genere oppure per la potatura degli olivi. Lo stipendio? Dalle indagini dei finanzieri si è potuto risalire a pagamenti che arrivavano anche a 20 euro dell’intera giornata lavorativa formata anche di 12 ore. Questo significa poco più di un euro e mezzo all’ora. Terminato il lavoro venivano riportati a Brescia.
Le investigazioni hanno portato a individuare tre persone ora indagate: il datore di lavoro, in questo caso il caporale, che è un indiano di 29 anni residente a Brescia e che era titolare di una ditta individuale che formalmente svolgeva servizi di volantinaggio e di supporto ad imprese, ma che in realtà faceva ben altro. La seconda persona è un 67enne bresciano, consulente del lavoro che teneva la contabilità ed infine il 36enne trentino titolare dei terreni agricoli a Riva del Garda.
Grazie a una fitta rete di conoscenze tra i connazionali e nella comunità pakistana, il caporale avvicinava i richiedenti protezione internazionale che si trovavano nei centri di accoglienza del bresciano. I lavoratori sfruttati, sentiti dalle forze dell’ordine, hanno dichiarato, come già detto, di aver percepito dai cinque euro all’ora ai venti euro per l’intera giornata, retribuzione inferiore del 60% a quanto previsto dal Contratto collettivo del lavoro per gli operai agricoli a tempo determinato, pari a circa dodici euro.
Il quadro investigativo si è aggravato a seguito di alcune perquisizioni locali e domiciliari eseguite dai finanzieri anche presso il consulente dell’indiano, grazie alle quali è stata acquisita numerosissima documentazione contabile ed extracontabile, tra cui le agende dove venivano annotate le retribuzioni e le ore effettivamente prestate dai lavoratori “intercettati”.
L’esame dei documenti ha portato a far emergere la rete del caporale e di come avesse effettuato somministrazione di manodopera nei confronti di altre ventitré imprese della Lombardia (Province di Brescia, Mantova e Cremona), Emilia-Romagna (Provincia di Piacenza) e Piemonte (Province di Torino, Alessandria e Cuneo), impiegando circa duecento lavoratori irregolari e in nero cui venivano corrisposte bassissime retribuzioni nella totale assenza del versamento di contributi previdenziali: i contratti di appalto venivano predisposti da un professionista del settore che veniva poi lautamente retribuito come collaboratore.
Il sistema organizzativo realizzato dai soggetti coinvolti sfruttava le caratteristiche dell’attività agricola: in tale settore è cogente la necessità di disporre della manovalanza in un determinato arco temporale, di solito coincidente con il periodo primaverile ed estivo, cui si abbina un bisogno di velocizzazione dei processi di raccolta, per evitarne il rischio di deperimento e l’esigenza di sostenere un costo economicamente adeguato agli altri costi di gestione.
Con l’intento di trarre vantaggio da tale situazione, il caporale, 29enne indiano di Brescia, ha creato un’organizzazione preordinata ad offrire al mercato agricolo una serie di prestazioni a bassissimo costo, omettendo di versare agli Enti Previdenziali e all’Erario i contributi e le ritenute previdenziali dovute.
All’esito dell’attività amministrativa condotta da Finanzieri e Ispettori dell’Inps parallelamente alle investigazioni giudiziarie è stato accertato che l’imprenditore, oltre allo sfruttamento dei venticinque lavoratori sul territorio trentino, aveva registrato sul Libro Unico del Lavoro giornate ed ore lavorative inferiori a quelle effettivamente prestate da circa duecento lavoratori; aveva utilizzato indebitamente un codice di contratto di lavoro riferito ad “assunzione di lavoratori extracomunitari dalle liste di mobilità”, non corrispondente al vero e che gli ha permesso di tariffare i contributi in maniera agevolata. Ha inoltre omesso di denunciare all’Inps dei lavoratori già denunciati al Centro dell’Impiego e per i quali aveva elaborato i L.U.L. (Libro unico del lavoro). Il totale degli importi delle omissioni contributive ammonta a oltre seicentomila euro, cui si aggiungono duecentomila euro di sanzioni civili: se questi importi non saranno pagati dai principali responsabili, saranno addebitati come obbligati in solido alle imprese agricole committenti che si sono avvalse della manodopera irregolare.