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Luigi Di Maio e Matteo Salvini

Il dopo Siri. Dal caso cannabis all’ennesimo braccio di ferro tra Interni e Difesa sui migranti, sotto il peso dei sondaggi tra gli alleati i nodi vengono al pettine

di Andrea Colombo

Dalla guerra alla guerriglia. Sono bastate 24 ore per capire qual è il paesaggio dopo la battaglia su Siri: un campo minato dove le esplosioni si susseguono una via l’altra. I sondaggi di fiducia di Arcore danno per la prima volta il Carroccio sotto il 30%, sia pur di poco. La battaglia su Siri e la sparatoria di Napoli sarebbero costate a Salvini quasi 3 punti, mentre i soci a 5S sono al 22%, ben sopra il confine psicologico del 20%. L’ansia con cui Salvini rincorre il consenso parzialmente perso e il rancore per lo smacco subito con la cacciata di Siri da un lato, la sensazione dei 5S di avere di nuovo l’iniziativa in mano, la determinazione di Conte nello svolgere davvero il ruolo di premier, le conseguenti tensioni anche personali tra lui e il capo leghista sono più che sufficienti a spiegare perché di tutto si possa parlare, nella maggioranza e nel governo, tranne che di pace.

Il caso Cannabis colpisce a prima vista per la sproporzione tra le dimensioni dell’oggetto di contesa e l’asprezza dei toni con cui i governanti si confrontano, sino a far volare per la prima volta la parola «crisi». Poi c’è l’ennesimo braccio di ferro tra Interni e Difesa sui migranti. Ci sono posizioni opposte sull’antifascismo. C’è la ministra Bongiorno che avverte tassativa: la prescrizione non entrerà in vigore finché non si saranno velocizzati i processi. L’opposto esatto di quanto assicurato un paio di sere fa da Di Maio. C’è lo Sbloccacantieri, che sta per essere discusso al Senato. Lo sgambetto leghista arriva con un emendamento che riporta a 150mila euro il tetto entro il quale gli appalti possono essere assegnati con affidamento diretto. È la cifra che era stata fissata con la legge di bilancio salvo poi essere abbassata di nuovo nel decreto sui cantieri. Si sa che affidamento diretto e corruzione legano come fragole e panna. Senza contare i temi mastodontici, tipo la Flat Tax.

Salvini la reclama. Di Maio, scoperto all’improvviso il senso di realtà, segnala che occorrono prima le coperture. È lo stesso Di Maio che sostituisce però il terragno senso di realtà con il miraggio quando butta lì l’idea di sforare il tetto del deficit del 3%. Qui è Tria ad alzare il cartellino rosso: «Le tasse non si tagliano col deficit».

Non è solo campagna elettorale. I nodi erano già vicini al pettine sin da gennaio: l’imminente prova delle urne ha solo accelerato le cose e lo psicodramma Siri le ha fatte precipitare. I calcoli di convenienza e le esigenze d’immagine hanno impedito però e impediranno ancora di far esplodere la crisi, destinata quindi a restare latente per un lasso di tempo imprecisato.

Forse fino all’estate, forse sino al varo della legge di bilancio, difficilmente oltre quella estrema deadline. Chi l’ha detto, in fondo, che non si possa convivere sbranandosi ogni giorno? Basta decidere di rinviare qualsiasi attività di governo a data da destinarsi.

sorgente: ilmanifesto.it
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