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A Roma la mostra dedicata alla «sifilide» che nel passato fu una vera tragedia sanitaria. Per curarla, molti mettevano rane o galli sulle piaghe. Il «paziente zero» era un sovrano

andrea cionci

Per circa quattro secoli e mezzo è stata un terribile flagello, nota alternativamente come mal serpentino, mal francioso, mal tedesco o vaiolo spagnolo.

Si tratta della sifilide, cui è dedicata la mostra «La malattia della vergogna» presso il Museo dell’Alto Medioevo (Museo delle Civiltà) a Roma (fino al 30 giugno) che raccoglie reperti di storia della medicina, documenti, quadri e ricostruzioni che aprono coraggiosamente uno squarcio su un’immane tragedia sanitaria e sociale.

La malattia fece la sua prima comparsa a Barcellona nel 1493, portata dai marinai di Cristoforo Colombo. Secondo i più recenti studi, il batterio europeo della sifilide, il Treponema, a contatto con uno simile americano (dei cui effetti si trovano testimonianze nell’arte precolombiana) subì una mutazione genetica acquisendo esaltate virulenza e capacità epidemica.

Con l’intensificarsi dei traffici marittimi e delle spedizioni commerciali provenienti dalle nuove terre, la sifilide esplode in Europa; i porti diventarono i principali punti di contagio, soprattutto sessuale, ma anche attraverso i tatuaggi cui si sottoponevano marinai e braccianti.

L’esercito mercenario di Carlo VIII di Valois, che nel 1495 aveva occupato Napoli, poi, contribuirà a diffondere la malattia venerea in tutta Italia. Lo stesso sovrano, noto per le sue intemperanze sessuali, si ammalò di sifilide, tanto da poter essere considerato il «paziente zero», ovvero il primo documentato.

Gli effetti della malattia erano terribili, furono riportati da Alessandro Benedetti, un medico veneziano che prestò la sua opera durante la battaglia di Fornovo (fra Carlo VIII e la Lega antifrancese).

Egli descrisse malati che avevano perso gli occhi, le mani, il naso, i piedi: «Tutto il corpo acquista un aspetto così ripugnante, e le sofferenze sono così atroci, soprattutto la notte, che questa malattia sorpassa in orrore la lebbra, generalmente incurabile, o l’elefantiasi, e la vita è in pericolo».

Il Guaiaco anche detto «legno santo»

Spiega il coordinatore del Museo e curatore della mostra Gaspare Baggieri: «Per il mondo scientifico, la sifilide fu una vera dannazione: medici, speziali, farmacisti, ciarlatani si cimentarono spasmodicamente nella ricerca del “medicamento giusto”, attingendo a credenze, pratiche tradizionali e magiche, o affidandosi all’osservazione personale. Salassi e purganti, ovviamente, per eliminare la “materia peccans”, abluzioni e unguenti, rimedi stregoneschi come l’uso di apporre sulle piaghe galletti neri o rane sezionate. L’unico ad intuire qualcosa fu Gabriele Falloppio, che, nel ‘500, raccomandava l’igiene e l’uso di preservativi ante litteram, di tela, imbevuti di decotto di genziana, altri sciroppi e polvere di corallo e brodo di tartaruga. Fu tutto inutile, tanto che i medici venivano messi letteralmente alla berlina, perfino in alcuni quadri di genere che abbiamo esposto».

Lo studioso Gabriele Falloppio

Uno dei rimedi più usati era la Theriaca, una sorta di medicina panacea che comprendeva decine di ingredienti, tra i quali l’oppio era l’unico a fornire un certo sollievo grazie al suo potere antidolorifico. Molto usato fu il guaiaco, o legno santo, di cui si faceva bere il decotto al malato, che veniva sottoposto anche a una dieta severa spesso comprendente il brodo di tartaruga, o altri estratti animali.

Recipiente in peltro per la Theriaca

Vista la scarsa efficacia di Theriaca e guaiaco, per secoli si impiegò il mercurio, ottenuto bruciando minerale di cinabro in apposite «saune» dove veniva rinchiuso il malato. Le fumigazioni, infatti, facevano scomparire le ulcerazioni esterne, ma il male proseguiva attaccando gli organi interni, spesso portando alla morte il paziente in pochi giorni. Gli effetti collaterali di tale «terapia» producevano danni al sistema nervoso con tremori, irritabilità, movimento inconsulti e colpivano anche gli operai che lavoravano nelle miniere di cinabro.

Le ripercussioni sociali di tale morbo furono devastanti tanto che i governi si resero presto conto dell’enorme sottrazione di forza lavoro e dell’indebolimento degli eserciti che la sifilide causava. I disastri in ambito familiare erano, poi, incalcolabili: spesso le mogli venivano contagiate dai mariti che frequentavano le case di piacere, poi venivano ripudiate e si trovavano a dover fare il «mestiere» per sopravvivere, diventando così ulteriori veicoli di infezione.

Alcuni tentativi volti ad arginare la piaga furono fatti a Roma da papa Pio V, che tentò di mettere al bando la prostituzione; tuttavia, considerate le proteste popolari e anche il mancato gettito che il venir mento della tassazione sui bordelli avrebbe comportato, (- 30.000 scudi all’anno) l’iniziativa si rivelò un fallimento. Nello stesso periodo, a Venezia, le 11.000 prostitute erano ormai ridotte alla fame dall’espandersi della malattia: i clienti preferivano andare con i «cinedi», giovani omosessuali, nell’illusione di evitare il contagio. Così il Consiglio dei Dieci, dovette mettere al bando questi ultimi per ripristinare gli equilibri economici della categoria.

Medicinali ottocenteschi

Nel 1905, Fritz Schaudinn, con il nuovo microscopio, identifica il Treponema Pallidum responsabile della malattia. Una nuova medicina, il Salvarsan 606, immessa sul mercato in quegli anni, sembra offrire una nuova speranza, ma non si tratta che dell’ennesima illusione. Il problema viene risolto definitivamente solo con la scoperta della penicillina, nei primi anni ’40, tanto che ancor oggi, con un paio di iniezioni di antibiotico, la sifilide (di cui si continuano a registrare alcune migliaia di casi all’anno) viene completamente guarita.

«Il pericolo delle malattie a trasmissione sessuale – continua il dott. Baggieri – non è certo scomparso, basti pensare alla Sindrome da Immunodeficienza acquisita (AIDS). L’informazione sulla prevenzione di queste cure è ancora insufficiente e spesso si limita banalmente a propagandare il solo uso del preservativo, senza proporre una vera educazione alla sessualità e al controllo delle pulsioni».

Sorgente: Così i marinai di Cristoforo Colombo importarono in Spagna la “malattia della vergogna” – La Stampa

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