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“Oggi nel mondo del lavoro tantissime di noi si trovano davanti a un bivio: o mantieni il posto di lavoro, magari con l’obiettivo di fare carriera, o fai la mamma. Ma le due cose dovrebbero poter coesistere, come succede fuori dall’Italia”, dice d’un fiato Marianna Cammarota. Lei fa parte dell’esercito silenzioso di lavoratrici diventate mamme che per accudire i figli ha dovuto rinunciare all’impiego “conquistato con passione e sacrifici, era il lavoro che mi piaceva”, aggiunge.

Ma Marianna è solo una delle tante. Si fa sempre più ripida la strada per le donne madri che vogliono – o devono, perché nella stragrande maggioranza dei casi spinte da difficoltà oggettive – mantenere il loro posto di lavoro. Migliaia di lavoratrici, in Italia, si trovano a fare i conti con l’impossibilità di portare avanti il loro impiego per occuparsi dei figli, il che vuol dire non avere altra scelta se non quella di dimettersi.

Marianna ha trentacinque anni, due figli gemelli di cinque, vive a Lissone, provincia di Monza. A luglio dell’anno scorso ha dovuto lasciare il posto di lavoro, contratto a tempo indeterminato, in una azienda, una S.p.a., 300 dipendenti, che si occupa di sicurezza e telecomunicazioni. “Ho dovuto mollare, non riuscivo più a seguire i bambini né potevo organizzarmi con mio marito, che fa il poliziotto e dunque deve rispettare dei turni stabiliti”, sospira. La storia di Marianna è simile a quella di tantissime donne lavoratrici che diventano mamme. Trasferitasi dalla Sicilia a Milano quindici anni fa, nel 2007 entra nell’azienda in cui è rimasta fino all’anno scorso con un contratto a tempo determinato, che dopo due anni diventerà a tempo indeterminato. Nel 2013, subito dopo il matrimonio, nascono i due gemelli “e lì sono iniziati i problemi”, sospira Marianna, che sa di non avere parenti su cui contare per l’accudimento dei figli, ma confida nella possibilità di trovare una soluzione con l’azienda. Così chiede e ottiene un part-time per tre anni, alla scadenza dei quali, nel 2017, “mi sono ritrovata di nuovo davanti alla scelta”. Marianna ricorre alla cosiddetta “contrattazione di secondo livello”, che, in assenza di politiche di sostegno, è l’unico fronte su cui le mamme lavoratrici possono muoversi interpellando, magari col supporto del sindacato, i vertici dell’azienda.

“Ho chiesto il part-time e mi è stato negato, così come un orario fisso 8-17, ma mi fu detto che, nel caso, avrei dovuto fare i turni e lavorare anche il sabato. Per me era impossibile – racconta Marianna – E poi, da quando ero diventata mamma, l’atteggiamento nei miei confronti era cambiato. Eppure negli anni l’azienda aveva investito su di me, mi aveva fatto fare un corso ed ero diventata tecnico informatico. Da quando ero diventata mamma, avvertivo che non c’era più la stessa stima di prima. Mi hanno fatto capire in molti modi, anche spostandomi da una parte all’altra, che per loro ero diventata un peso”. Una situazione che, spiega, le è costata anche un danno psicologico.

“Da quando sono nati i miei figli, ho resistito quattro anni, poi mi sono ritrovata con le spalle al muro e ho dovuto mollare – aggiunge – Non ho avuto scelta, non avrei mai potuto conciliare vita familiare e vita lavorativa alle condizioni dell’azienda, eppure quel lavoro mi piaceva e mi serviva”.

Ora Marianna è in disoccupazione e da settembre il sussidio diminuirà. Il suo obiettivo è trovare un nuovo lavoro, pure cambiando ambito e mansione. “Ho un attestato da operatore sanitario, potrei provare in un centro diurno in modo da lavorare fino alla 16 per potermi poi dedicare ai bambini”, spiega e ha già pronta la risposta da dare se ai colloqui le chiederanno: “Vuole sposarsi? Vuole dei figli?”.

Domande che difficilmente vengono rivolte a un uomo. “Si chiama colloquio differenziato – spiega ad HuffPost Tania Scacchetti, segretaria nazionale confederale della Cgil, che si occupa di mercato del lavoro – ed è sempre più diffuso nel nostro Paese. Si tratta di una discriminazione ab initio, anche rispetto al riconoscimento del valore sociale della maternità, che rende ancora più difficoltoso l’accesso delle donne al mondo del lavoro”.

“Sono pronta, dovessero chiedermi se ho figli risponderò che questo non può essere considerato un problema – chiude Marianna – una mamma sul posto di lavoro ha la stessa affidabilità di una donna senza figli. Lo avrei dimostrato alla mia azienda alla quale io non avevo chiesto lo stipendio in regalo, ma che ci si venisse incontro conciliando le esigenze reciproche. Chiedevo una possibilità”.

I numeri. Dal 2011 al 2017 – i dati sono dell’Ispettorato del lavoro – 165.562 hanno lasciato il posto di lavoro, principalmente per “incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura della prole”, si legge nell’ultimo monitoraggio aggiornato al 2017, che, con 30.672 dimissioni e risoluzioni contrattuali di lavoratrici madri (pari al 77 per cento delle 39.738 totali, in cui sono comprese anche quelle dei lavoratori padri) ha fatto registrare il numero più alto degli ultimi sette anni.

La crescita è stata costante e inarrestabile: nel 2011 le donne che si sono dimesse soprattutto perché impossibilitate a conciliare lavoro e maternità erano 17.175, sono diventate 18.454 nel 2012, 21.282 nel 2013, 22.480 nel 2014, 25.620 nel 2015, fino a toccare quota 29.879 nel 2016 e 30.672 l’anno dopo. Assenza di nidi aziendali, costi elevati per l’assistenza dei neonati, organizzazione e condizioni di lavoro ritenute gravose o difficilmente compatibili con l’esigenza di occuparsi dei figli: le ragioni, alle quali in alcuni casi si aggiungono la mancanza di una rete parentale di supporto, sono in gran parte riconducibili alla carenza di una politica di sostegno alla conciliazione vita-lavoro e, più complessivamente, alla genitorialità.

Niente bonus baby sitter. Invece, di recente, è stato cancellato anche il bonus baby sitter: dal 2013, quando fu introdotto, era stato confermato fino al 2018 e garantiva alle mamme lavoratrici che rientravano prima al lavoro – rinunciando al congedo facoltativo e allo stipendio al 30 per cento) 600 euro mensili per sei mesi per pagare asilo o baby sitter.

Rimane costante la tendenza secondo cui uomini, ma soprattutto donne, che si dimettono hanno prevalentemente un solo figlio o sono in attesa del primo, ma aumenta, e di molto, il numero di coloro che lasciano l’impiego a causa dei costi elevati di asili nido e baby sitter: nel 2017 sono stati 3014, più del doppio dei 1.475 del 2016.

Considerando anche la decisione del Governo giallo-verde di non rinnovare il bonus, misura non esaustiva ma che certo aiutava, il numero delle donne costrette a dimettersi per provvedere ai figli, dunque, negli anni a venire potrebbe continuare a crescere.

“Dati allarmanti, cosa fa il Governo”. Per l’onorevole Cinque Stelle Maria Edera Spadoni, vicepresidente della Camera, attenta ai temi relativi alla donne e al lavoro, “la questione esiste e i dati sono allarmanti, sulla questione femminile c’è molto da fare prima di tutto sul piano culturale”. Quanto alla misure a sostegno della maternità e della genitorialità, la vicepresidente della Camera garantisce che “nel Governo c’è grossa sensibilità”, prova ne sono, a suo avviso, “la riconferma, nella legge di bilancio 2019/2021, del bonus bebè e del bonus asilo nido, e, nel Def, il rifinanziamento, del fondo per le Politiche sociali e quelli per le politiche della famiglia e l’assistenza agli alunni disabili. E poi – conclude Spadoni – ci sono reddito di cittadinanza e “Quota 100″ che certamente aiuteranno anche le donne”.

Resta il trend registrato dall’Ispettorato del lavoro, forse poco noto, certo poco raccontato eppure drammatico, che rischia di spingere ancora di più le donne nell’angolo in cui, nei fatti, la relegano un certo disinteresse del legislatore, il dibattito in corso sul ruolo della famiglia tradizionale – con l’uomo che lavora e la mamma che sta a casa con i figli – e anche quanti, pur senza dichiararlo espressamente sostengono in realtà che “le donne possono essere o tabernacoli o assassine” – come ha scritto di recente Lidia Ravera.

Lo sciopero delle mamme. Vogliono una possibilità i lavoratori e le lavoratrici della “eDreams”, multinazionale spagnola che si occupa della vendita di pacchetti vacanza. Dei circa 90 dipendenti, 65 sono donne, età media 35 anni. Molte mamme o future mamme, che lavorano, qualcuna anche da vent’anni, per turni. Negli ultimi due anni poco meno di dieci si sono dimesse per l’incompatibilità tra turni e vita familiare, dopo essere diventate mamme. Il 23 aprile, a Milano, i lavoratori hanno incrociato le braccia per due ore in quello che è stato definito “lo sciopero delle mamme”. Il tema è, ancora una volta, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

“Forse a volte ci si dimentica che dietro un telefono o un computer ci sono persone, come noi. Un’agenzia per quanto on line, dietro un sito ha dei lavoratori, che in questo caso, lavorano su turni, 363 giorni all’anno – scandisce ad HuffPost, Marco Beretta, segretario Filcams Cgil Milano, che sta seguendo il caso – Più volte nel corso degli anni, sono state svolte assemblee dei lavoratori in cui questi ultimi hanno segnalato forti difficoltà a conciliare i tempi lavorativi con quelli al di fuori dell’ufficio. Abbiamo provato a discuterne con l’azienda, proponendo anche valide soluzioni per affrontarli, con una sola unica risposta: la totale chiusura. Rifiutarsi di sedersi ad un tavolo e discutere di questi temi, vuol dire non considerare l’importanza del principale motore dell’azienda: i lavoratori”. E le lavoratrici.

Sorgente: “A 35 anni mi hanno detto o lavori o fai la mamma. Ho scelto i miei figli. Ma questo succede solo in Italia” | L’HuffPost

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