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Gli americani ipotizzano la mano dell’Isis. Hotel e chiese: uno «schema» abituale

di Guido Olimpio

Il massacro di Pasqua nello Sri Lanka ha una doppia lettura. Per la polizia ha agito un gruppo locale, il National Thowheed Jama’ath, sostenuto da una rete internazionale. Un’azione forse ispirata dall’Isis, come suggerisce l’intelligence americana. Aspetti da definire mentre il bilancio è salito a 311 vittime. È possibile che una gang di estremisti islamici, nota per distruggere statue buddiste, sia passata, senza una tappa intermedia, ad uno tra gli attentati più gravi di quest’epoca? Non è facile dare risposte anche per l’atteggiamento delle autorità, in guerra tra loro, e colpevoli di aver sottovalutato segnalazioni precise.

I terroristi hanno dovuto prepararsi, un lavoro iniziato con ricognizioni e il furto d’esplosivo. A gennaio la sicurezza ne sequestra circa 100 chilogrammi, vengono arrestate diverse persone sospettate di legami con Jama’ath. Alcuni sono rimessi in libertà perché – si dice – godono di protezioni ed uno avrebbe poi partecipato alla strage. Infatti l’episodio non ferma il piano. La missione prosegue con la costruzione delle bombe, quindi con gli aspetti logistici. I mezzi per arrivare a Colombo, case sicure come appoggio e lo «schieramento» negli alberghi inseriti tra i bersagli. All’Hotel Shangri-la due attentatori arrivano qualche ora prima dell’attacco, al Cinnamon l’uomo-bomba si presenta la sera precedente e l’indomani si mette in fila con i clienti davanti ai tavoli del buffet. Qui attiva la carica. Scelta letale, come quella degli altri kamikaze, tra i sei e i sette a seconda delle versioni. Il ritrovamento di 87 detonatori, l’esame degli ordigni inesplosi — uno da 50 chilogrammi — la neutralizzazione di veicoli-trappola e gli arresti eseguiti – saliti a 40, tra loro anche un siriano – rappresentano indizi di una minaccia ancora presente. Per questo hanno proclamato il coprifuoco, con misure di vigilanza sempre strette.

È evidente che la fase di ingaggio non poteva passare inosservata. I servizi di sicurezza indiani allertano i singalesi citando sempre Jama’ath, avvisi seguiti da altri: il 4, il 9 e l’11 gli apparati sono informati, ma la notizia si insabbia nelle beghe politiche segnate dal contrasto presidente-governo. Gli assassini sono invece più agili, non è una sorpresa. Nello scenario investigativo il gruppo è composto da elementi del posto, alcuni noti per le loro posizioni violente, uno avrebbe postato materiale jihadista fin dal 2017, un simpatizzante di Al Baghdadi. Il suo nome è Zahran Hashim, indicato come uno dei possibili kamikaze dell’hotel Shangri-La-la. E, infatti, sul web account pro-Isis hanno diffuso una sua foto davanti ad una bandiera nera, una sorta di rivendicazione non ufficiale accolta comunque con prudenza dagli osservatori. La cellula — sempre in base alla versione ufficiale — avrebbe ottenuto l’appoggio di un network esterno «senza il quale non avrebbe mai potuto compiere la strage», dicono i funzionari. E i sospetti virano sullo Stato Islamico, magari su qualche veterano rientrato dai fronti di guerra. Gli americani non lo escludono, rilanciano l’idea di un gesto ispirato dal Califfo. I media ricordano gli oltre 30 volontari, in gran parte figli della buona borghesia singalese, andati in Siria e in Iraq per poi tornare in patria. Altri esperti non escludono connessioni qaediste e rapporti con un movimento indiano. Si ipotizza persino una vendetta per l’eccidio nelle moschee della Nuova Zelanda. Aspetti che hanno bisogno di riscontri, senza dimenticare il clima velenoso che rischia di inquinare i giudizi e le prove.

Chi ha seminato morte, però, ha seguito una coreografia consolidata. Ha preso di mira le chiese e gli hotel perché cercava luoghi gremiti in modo da provocare un alto numero di vittime e obiettivi che avessero una risonanza internazionale. Ha mescolato agenda locale e globale con l’azione stessa. Ha manovrato per dividere le comunità religiose, mettere in imbarazzo l’esecutivo, evidenziare i buchi nelle difese. Ha suscitato reazioni, compresa quella del Papa, per dimostrare l’efficacia della missione. Ha sfruttato le tensioni nelle istituzioni dello Sri Lanka per passare sotto il radar. Questo nonostante il Paese abbia sofferto decenni di guerra civile e sperimentato le azioni suicide condotte dalle Tigri Tamil, capaci di usare le donne e fasce esplosive per gesti spettacolari.

Forse i killer hanno scelto l’isola perché ritenevano non fosse in guardia contro i jihadisti, uno schema — sottolinea qualche analista — che potrebbe ripetersi in altre aree periferiche del mondo con conseguenze comunque pesanti. Bastano un luogo di culto e un albergo.

Sorgente: Sri Lanka, 6 kamikaze e 87 detonatori Il piano segnalato già da gennaio


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