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Organizzo una cena a casa mia, il più illustre dei miei ospiti viene rapinato da un delinquente travestito da tassista. Non chiamo la polizia, non lo risarcisco, ma annuncio al mondo che non inviterò più né lui né la sua famiglia, così non ci sarà più nessuno da rapinare. Poi, quando mi rendo conto che a casa mia non vuole venirci più nessuno, tiro fuori una faccia da Scherzi a parte e dico che è stata tutta una provocazione per far riflettere sulla cattiveria dei tassisti. E scemi tutti quelli che ci avevano creduto.

La brutta vicenda di Trieste, dove gli organizzatori della mezza maratona avevano riservato gli inviti agli atleti europei per punire i «manager disonesti» degli africani ha molte verità discutibili e un unico indifendibile punto debole: le motivazioni delle scelte, paradossali come la storiella della cena.

Che nel mondo delle corse su strada si aggirino sfruttatori mascherati è molto più di una voce. Ma se è vero, come è stato rivelato a Trieste, che «lo scorso anno il vincitore venne letteralmente abbandonato al suo destino dal procuratore, che non gli riconobbe nemmeno il rimborso spese», allora bisognava fare nomi e cognomi, coinvolgere procure e federazioni, senza sparare nel mucchio.

Il no agli africani, dominatori da anni di quasi tutte le corse italiane, ha scatenato il solito alto dibattito: siete razzisti, voi ipocriti, degni del ku klux klan, buonisti, fascisti, pidioti, infami, bugiardi, ritiriamo i soldi delle sponsorizzazioni. Qualcuno ha ricordato che a Natale il vicesindaco leghista di Trieste pensò bene di andare in giro a bruciare le coperte dei clochard, altri che Mussolini scelse proprio Trieste per annunciare le leggi razziali, altri ancora hanno parlato delle maratone dell’Alabama e rammentato i tempi non remotissimi in cui nella libera America ai neri non era permesso giocare a basket e a baseball con i bianchi.

Nessuno, però, neanche quei provocatori degli organizzatori triestini, ha citato il precedente dello scorso anno a Lucca. Forse perché in quel caso il veto ai neri era stato spiegato in modo meno «nobile» e forse più sincero: «Non li abbiamo invitati alla mezza maratona perché vincono sempre loro. Senza africani la gara è diventata più attraente: sul podio sono finiti tre italiani con uno sprint emozionante per gli spettatori». Peccato che il tempo del vincitore italiano fosse 9 minuti più alto di quello del keniano arrivato primo nell’edizione precedente. E allora la morale di questa brutta storia è tutta qui: alzare muri e poi discutere se sono razzisti o no (dimenticando che ciò che sembra razzismo è quasi sempre razzismo) fa andare più piano. E mica solo nelle mezze maratone.

Sorgente: Se il veto agli atleti africani serve a far vincere quelli bianchi – La Stampa

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