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Le armi non letali come dimensione tecnologica della repressione di piazza

Il collettivo Prison Break Project, autore del libro ” Costruire Evasioni, sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico”   in questo dossier che pubblichiamo produce un accurata ricerca sulla repressione e nuove armi a disposizione delle polizie europee con un’attenzione particolare a Italia e Francia.  Una panoramica rivolta a presentare le modalità d’uso delle flashball e più in generale delle armi non letali da parte della polizia francese.

Riflessioni sull’impiego di strumenti tecnologici e militari volti a spezzare le forme di organizzazione del conflitto sociale.

Partiremo dalla presentazione di un caso particolare, quello del collettivo “8 juillet” (8 luglio) che prende il nome dall’8 luglio 2009 giorno in cui, a Montreuil – in periferia di Parigi – dopo lo sgombero di uno squat la polizia ha attaccato con i proiettili di gomma una manifestazione di solidali. In cinque sono stati feriti a nuca, fronte e clavicola. Jo ha perso un occhio. Da allora il collettivo “8 juillet” si organizza per fare inchiesta e difendersi della violenza poliziesca sia nelle strade che nelle aule dei tribunali.

Successivamente approfondiremo la tematica dell’arsenale delle armi cosiddette non letali in dotazione della polizia francese e del loro impiego nelle manifestazioni, sottolineando la logica repressiva alla base del loro utilizzo. Per dare un’idea delle loro caratteristiche abbiamo tradotto delle schede tecniche di queste armi.

Questo dossier è composto da diversi testi, materiali e video sottotitolati per cercare di presentare le armi non letali e le logiche che sottendono il loro impiego riflettendo sia sul contesto francese che su quello italiano.
Una versione del testo senza i materiali multimediali ma da leggere e stampare è disponibile in formato .pdf cliccando il formato che preferite…


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Nei giorni in cui le banlieues sembrano infiammarsi ancora in risposta ad ogni sopruso della polizia (post)coloniale, può essere interessante vedere le radici tecniche e storiche dell’armamento massivo a disposizione delle differenti forze dell’ordine transalpine. Il gioco semantico è sempre in primo piano, parliamo infatti di armi che vengono chiamate “non letali” (per i più puntigliosi anche a “letalità attenuata”) per sottolinearne la presunta ridotta pericolosità rispetto al revolver, classico ingrediente delle dotazioni standard. Parliamo di armi il cui uso è stato sperimentato e perfezionato in primis nelle banlieue, il luogo del crimine e della barbarie secondo retoriche che, tolto un velo di trucco, sono le medesime di quelle della francia coloniale e delle “ratonnades” (linciaggi) contro algerini e magrebini nelle vie della ville lumière.

 (La polizia terrorizza, mutila, uccide)

 L’uso di queste armi negli ultimi anni è divenuto ricorrente e ordinario nelle manifestazioni, per accompagnare senza alcun freno inibitore l’intervento della polizia. Proiettili di gomma, granate a frammentazione o assordanti, spray urticanti a lunga gittata, ma anche vere e proprie armi da guerra con carica di tritolo “attenuata” sono i pericoli che chi nelle strade disturba l’ordine pubblico deve schivare sempre più frequentemente. Dalle periferie ai movimenti di lotta, da qualche anno ogni azione deve poter inventare soluzioni per difendersi il più possibile da queste armi. Proiettili che, diversamente da una carica frontale dei celerini, sfrecciano nell’aria silenziosi fino a colpire, ferire, mutilare, uccidere, qualcun* accanto a te: lo stato spara nel mucchio, sulla folla. Questi dispositivi hanno la caratteristica di isolare il bersaglio dal resto della folla (o della situazione), riescono a imporre l’individualizzazione anche negli scontri di piazza, là dove il sentimento di solidarietà si manifesta e la forza collettiva può costruirsi.

 Tutto ciò non risponde solo a una logica di ordine pubblico ma anche a un interesse economico: si tratta di un insieme di prodotti di punta per i settori dell’industria delle armi e delle tecnologie avanzate a uso repressivo. Quest’ambito industriale transalpino è da sempre uno dei più importanti al mondo (come dimenticare gli aerei cargo colmi di materiale per le forze antisommossa tunisine durante l’esplosione della primavera araba, gentile regalo dell’allora ministro della difesa Aillot-Marie al dittatore Ben Ali?).

 Descrivere le tecniche poliziesche del loro impiego e le logiche politiche che le sostengono è importante perchè in Francia queste armi sono divenute rapidamente uno dei pilastri dell’intervento contro i movimenti sociali. Sulla scorta di queste riflessioni non possiamo esimerci dal porci una serie di domande sulla situazione attuale e sull’imminente futuro per quanto riguarda gli scenari italiani. Conoscere le modalità d’uso di questi strumenti è utile, a nostro avviso, anche perché può aiutare a sviluppare delle forme di risposta e di opposizione al loro impiego e al consenso che le accompagna.

Luglio 2009: uno sgombero di mezza estate

Per descrivere come queste armi agiscono nel quotidiano di chi anima le lotte sociali, ritorniamo alle piccole cose, a situazioni che viviamo in prima persona…

Luglio 2009, gli ingredienti di una serata d’estate nella prima periferia di Parigi sono: uno dei tanti sgomberi di uno squat, un presidio di solidarietà e una scaramuccia con la BAC (brigata anti criminalità, sbirri in borghese super equipaggiati e molto aggressivi).

Siamo in un clima teso, mancano anni agli attentati del Bataclan, ma l’allarme terrorista è sempre acceso, per giustificare pressioni, inchieste, carcere. All’epoca la moda repressiva era di demonizzare e colpire l’anarco-autonomo, al centro di diverse inchieste nei confronti del movimento. Proprio per questo per uno sgombero di uno spazio dove una trentina vivevano da qualche mese e in molti di più abbiamo organizzato iniziative, concerti, una radio di quartiere, hanno mobilitato l’elicottero e le forze speciali, calatesi sul tetto come se fossero in astinenza dei film di bruce wills. Ore di attesa per i compagn* in stato di fermo nel commissariato e la sera un presidio già programmato per difendere un’altra casa occupata dall’ennesimo imminente sgombero che diventa una manifestazione contro le espulsioni.

E dopo un fuoco d’artificio e una visita al palazzo della Clinique deserto e difeso da vigili, cani e guardie ecco che all’improvviso ci sparano addosso. I colpi sibilano accanto ma non li senti, ti accucci perché chi era in prima fila ha urlato FLASHBALL. Siamo una trentina, altri sono più indietro. Raul e Igor sono colpiti alla fronte e al petto e si piegano dal dolore, sull’asfalto della piazza del mercato il sangue di Jo esce a fiotti mentre lui si accascia.

Ci inseguono per oltre 500 metri attraverso una grande rotatoria continuando a spararci addosso, colpendo almeno altre due volte, sempre verso la testa. La notte dall’ospedale arriva la conferma, Jo ha perso l’occhio, ma lui e noi con lui non abbiamo perso la voglia di lottare.

Il 13 luglio, 5 giorni dopo, un corteo ripercorre gli stessi luoghi e vengono lette le parole scritte da Jo ancora in ospedale. Per difendersi dalla polizia i manifestanti portano caschi e striscioni rinforzati.

Ecco il video-volantino (attivate i sottotitoli in italiano) del collettivo “8 juillet”:

https://www.dailymotion.com/video/x5ard2h

Il processo dopo l’8 luglio:

Quel giorno la polizia ha sparato a più riprese numerosi flashball: sono stati refertati 6 feriti di cui 5 colpiti sopra la spalla (fronte, nuca, occhio, clavicola, spalla) dove è teoricamente proibito mirare. Secondo i rilievi fatti nel corso dell’inchiesta ci sono almeno 3 poliziotti responsabili degli spari.

Per chiunque fosse stato presente quel giorno è evidente che non si è trattato di un errore, non è un abuso, ma la scelta sistematica della polizia è stata quella di sparare.

I feriti e il collettivo di sostegno si sono confrontati con un processo cominciato nel 2014, la richiesta dell’accusa nei confronti dei poliziotti era “violenze volontarie da parte di persona depositaria dell’autorità pubblica”. Le registrazioni delle loro comunicazioni sono risuonate eloquenti nel tribunale: “Eccoci al poligono di tiro!”

Al termine dell’inchiesta, per ogni sparo è stato identificato un autore e un colpito. Questo solo per quelli che hanno provocato le ferite refertate, mentre quanti altri spari siano stati effettuati non è stato accertato.

La ricostruzione fatta nell’ambito del processo ha stabilito:

– sulla piazza del mercato sono stati individuati tre spari: il primo colpisce Raul in piena fronte, un secondo Igor alla clavicola e nello stesso istante un terzo sempre dello stesso poliziotto colpisce Jo all’occhio.

– qualche minuto più tardi, tre nuovi spari vengono sparati nella piazza a circa 200 metri: Flo è colpita alla gamba mentre corre verso la metro, lo stesso poliziotto colpisce subito dopo Eric al polso sinistro mentre si protegge la nuca con le mani. Invece uno sparo di un altro tiratore colpisce Gab alla schiena sopra il braccio sinistro.

Le udienze del processo di primo grado hanno avuto luogo tra il 21 e il 25 novembre 2016.

Dopo giornate in cui gli avvocati dei poliziotti hanno pesantemente accusato i/le compagn* che hanno fatto ricorso alla giustizia, il giudice ha sancito che il comportamento dei poliziotti coinvolti fosse da punire senza però mettere in causa la loro gerarchia.

Il 16 dicembre, il tribunale di Bobigny (nella regione della Seine-St-Denis) ha condannato i tre poliziotti sotto processo per violenza volontaria con armi. Le pene comminate: 15 mesi di condizionale e 18 mesi di interdizione di porto d’armi per l’autore degli spari al mercato e la conseguente mutilazione di Jo, mentre 7 mesi di condizionale e 12 mesi di interdizione di porto d’armi per gli altri due. Nonostante la richiesta del procuratore, non è stata imposta nessuna interdizione di servizio, i poliziotti sono semplicemente rimasti al loro posto. Questo processo rappresenta tuttavia una relativa eccezione rispetto agli altri casi di ferimento e mutilazione dove nessuna conseguenza penale è stata sancita contro gli sparatori. In questo caso, almeno a livello simbolico, è arrivata una condanna delle azioni poliziesche: in molti altri gli sparatori sono stati assolti per legittima difesa per il solo fatto di confrontarsi con manifestanti, ultras o banlieusard.

Negli stessi giorni del processo, a conferma della quotidiana violenza e brutalità della polizia, grande attenzione era rivolta alle mobilitazioni in seguito all’omicidio di Adama Traore nelle mani della polizia. Lo stesso giorno della sentenza del processo per i fatti dell’8 luglio, i fratelli di Adama Traoré, Bagui et Youssouf, accusati di violenza durante un consiglio comunale a cui partecipavano per denunciare le condizioni della morte del fratello, sono stati condannati rispettivamente a 9 e 3 mesi di carcere, mentre la sua famiglia, impegnata in una lotta per far luce sulle modalità della morte di Adama durante il suo arresto, continua a subire una forte repressione.

L’obiettivo della mobilitazione del collettivo 8 juillet è quello di creare legami tra tutte le realtà e le persone che vengono ripetutamente attaccate dalla polizia, una pratica quotidiana di esercizio del potere. Se le banlieue sono da decenni al centro di un’attenzione repressiva di stampo neocoloniale, dove brutalità, razzismo e impunità sono la regola, anche coloro che partecipano ai movimenti sociali sono ormai nel mirino (nel senso più concreto del termine) delle azioni repressive, in quanto anche gli oppositori fanno parte dei nemici della società.

Nel corso delle mobilitazioni contro la “loi travail” (la riforma del lavoro) tra il 2016 e il 2017, le armi non letali sono state le protagoniste della repressione di piazza. Oltre alle centinaia di lacrimogeni, proiettili di gomma e granate a frammentazione erano utilizzati con sempre maggiore frequenza dalle forze dell’ordine, anche in situazioni “ordinarie” e non solo nelle fasi più tese degli scontri. Ci sono state centinaia di feriti, dei quali alcuni molto gravi, e si è allungata la lista di chi ha perso l’occhio durante le manifestazioni: un sindacalista a Parigi, un ragazzo a Nantes e sicuramente altri meno conosciuti. I manifestanti hanno organizzato dei gruppi di “street medic” per curare i feriti in strada e limitare i danni. Si è diffusa l’abitudine di portare ai cortei casco e maschera da sci per evitare le ferite alla testa. I semplici striscioni vengono poi sempre più spesso sostituiti con teli rinforzati e strutture di legno capaci di resistere ai flashball, per offrire un riparo ai manifestanti.

“Lo stato spara nel mucchio” azione su un murales in centro a Montreuil”

Ecco la traduzione del volantino del collettivo scritto per lanciare la mobilitazione nei giorni del processo contro i cecchini dello sgombero della Clinique prima della sentenza:


Nessuna pace:

7 anni dopo, 3 poliziotti e i loro flashball compaiono

davanti al tribunale amministrativo…

7 anni dopo, quanti feriti, mutilati e uccisi dalla polizia?

La polizia ci ha sparato addosso con il flashball la sera dell’8 luglio 2009 a Montreuil (banlieue di Parigi, ndt), quando eravamo numerosi a manifestare in seguito allo sgombero della “Clinique”, un luogo di organizzazione aperto alla città. Tra le sei persone ferite, cinque sono state colpite sopra la spalla, esattamente dove la polizia non ha l’autorizzazione di mirare. Uno di noi ha perduto un occhio. Cosa rara, 7 anni dopo, tre poliziotti sono infine giudicati al Tribunale di Bobigny dal 21 al 25 novembre.

Il 13 luglio 2009, qualche giorno dopo i fatti, eravamo qualche migliaia a manifestare a Montreuil con davanti uno striscione: “La nostra difesa collettiva non si costruirà in un giorno. Organizziamoci contro tutte le polizie”. Da allora ci siamo organizzati in collettivo e abbiamo incontrato in tutta la Francia molte altre persone colpite dalla violenza della polizia, mutilati dal flashball e dal LBD (fucile spara i proiettili di gomma ndt), parenti di persone uccise dalla polizia. Abbiamo cercato di rendere visibili le nostre storie, unirle tra loro per creare un fronte comune. Fare fronte vuol dire divenire solidali con altri. Inventare e creare strumenti giuridici. Condividere i contatti con avvocati e giornalisti. Prevenire le forme che assumerà l’impunità poliziesca: i comunicati fallaci, le perizie insidiose, i verbali fasulli, gli articoli ingannevoli, le pressioni poliziesche, etc. E, soprattutto, continuare a scendere in strada, organizzare manifestazioni, presidi, concerti di solidarietà. Uscire da quell’isolamento in cui la giustizia, come la polizia, vogliono rinchiuderci.

In quest’ottica abbiamo partecipato, nel novembre 2014, alla creazione di un’Assemblea dei feriti, delle famiglie e dei collettivi contro la violenza poliziesca, emersa durante la mobilitazione in seguito alla morte di Rémi Fraisse (il ragazzo di 21 anni ucciso da una granata di disaccerchiamento della gendarmeria durante gli scontri nella zad del Testet, vicino Tolosa, ndt). L’assemblea riunisce una quindicina di persone che in Francia sono state mutilate da colpi di flashball e LBD, oltre a famiglie e collettivi.

Da sette anni viviamo al ritmo dei morti e dei mutilati. Tra il 1995 e luglio 2009, abbiamo conteggiato una quindicina di persone gravemente ferite per dei colpi di flashball, prevalentemente nei quartieri popolari. Oggi il numero è praticamente triplicato. Contiamo in Francia più di 40 feriti gravi, di cui la maggioranza accecati. Peraltro, l’introduzione delle armi cosiddette a “letalità ridotta” non ha portato ad una diminuzione dei morti. La polizia uccide sempre, in media, una persona al mese.

Il flashball non sostituisce l’arma di servizio. Con quest’arma, come con le granate di disaccerchiamento, le forze di polizia si riabituano a tirare addosso alla gente, mettendo in opera un preciso stile di gestione delle masse: mutilare qualcuno per far paura a tutti. Questa primavera, durante la lotta contro la riforma del lavoro, tutti hanno potuto assistere, in strada o sui video, al grado di violenza della polizia che non ha mai smesso di accerchiare, gasare, picchiare, arrestare, ferire, mutilare e sparare. Granate, LBD40, stato d’urgenza, repressione: queste sono le forme dell’attuale dialogo sociale.

I poliziotti responsabili delle mutilazioni o delle morti sono raramente preoccupati. Nella quasi totalità dei processi che coinvolgono il flashball, i poliziotti hanno beneficiato di una riqualificazione del reato, di un non luogo a procedere o di assoluzioni: si contano solo 3 condanne su una quarantina di casi. Un’impunità che è anche la regola negli affari di omicidio di polizia. L’ultimo esempio questa estate, Adama Traoré, un ragazzo di 24 anni, è morto tra le mani dei gendarmi a Beaumont sur Oise. Il procuratore, senza sorpresa, ha cercato di insabbiare l’affare, omettendo di comunicare gli elementi dell’autopsia. Diverse notti di rivolta, giornate di mobilitazione, una famiglia determinata e un avvocato combattivo sono riusciti a far fallire questa pratica sistematica.

Al processo dei tre poliziotti che ci hanno sparato addosso e mutilato uno di noi, inviteremo altri feriti e amici delle vittime della polizia sulla scena pubblica. Perché se si tratta di ottenere la condanna dello sparatore, questo processo sarà anche l’occasione per far ascoltare ogni storia, di combattere la negazione delle istituzioni, attaccare la catena di comando e svelare la funzione della polizia e delle sue armi.


Per farsi un’idea di come agisce la polizia con i flashball e le loro conseguenze ecco un video che mostra il ferimento di un manifestante a Nantes durante una manifestazione contro la “loi travail”:

Per capire meglio cosa sono e come funzionano le armi non letali che compaiono con frequenza in Francia contro chi a vario titolo disturba l’ordine pubblico, ecco una presentazione sintetica delle principali armi e munizioni utilizzate. I testi e le immagini sono un montaggio realizzato da Prison Break Project di alcuni dossier disponibili nei siti di movimento francesi.

Queste informazioni sono tratte dal dossier “Les armaments du maitien de l’ordre” (le armi del mantenimento dell’ordine) disponibile sul sito: zad.nadir.org.

Le armi per il mantenimento dell’ordine pubblico

 Lanciagranate e flashball

 In Francia il decreto n°795 del 30 giugno 2011 stabilisce la lista delle armi che possono essere utilizzate per la gestione dell’ordine pubblico nel caso di assembramenti in strada o luoghi pubblici e suscettibili di turbare l’ordine pubblico (tramite minaccia alle persone o alle istituzioni). Vi troviamo i lanciagranate da 56mm, i lanciagranate da 40mm, i lanciagranate a “munizioni di difesa”, oltre al fucile a ripetizione di precisione calibro 7,62x51mm.

I lanciagranate che sparano munizioni da 56mm hanno una gittata tra i 50 e i 200 metri (usando generalmente granate lacrimogene, ma anche assordanti o di “disaccerchiamento”) e una cadenza di tiro di 6-8 colpi al minuto. Il Cougar pesa 3,67 kg mentre il Chouka poco meno di 2. I Flashball da 44 mm di calibro (Compact e Super Pro) sono più leggeri e maneggevoli, oltre ad essere dotati di canne doppie. La loro gittata è tra 5 e i 20 metri, allo sparo producono un rumore analogo a un fucile.

Dal 1995, le forze dell’ordine si sono dotate dei Flashball prodotti dalla società Verney-Carron, che sparano palle sferiche di caucciù da 44 mm fino a 30 metri (portata operazionale tra i 7 e i 10 metri). L’uso del flashball si è generalizzato sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy tra il 2002 e il 2005 con una distribuzione massiccia alle forze dell’ordine (1270 esemplari in 2 anni) della sua versione Super Pro.

Dopo una campagna mediatica che ha attribuito al Flashball la responsabilità di gravi ferite (fratture, penetrazione nel globo oculare, perdita della vista…), Verney-Carron si è sperticata in un comunicato a discolpa delle proprie armi, definite “non letali”, accusando indirettamente il proprio concorrente svizzero Brügger & Thomet. In effetti, dal 2009, le forze dell’ordine francesi si sono più spesso rifornite del “lanciatore di munizioni di difesa” marca B&T.

Si attribuisce ai Flashball e agli LBD la responsabilità di numerose ferite che hanno portato alla perdita dell’uso di un occhio per 7 persone tra il 2005 e il 2010.

L’LBD 40 è silenziato, con una gittata fino ai 50 m (operazionale tra i 10 e i 30 metri), ha il calcio pieghevole, può essere dotato di un mirino elettronico e pesa poco più di 2 kg.

 

Granate di “disaccerchiamento”

Queste granate (chiamate anche DBD, dispostivi balistici di dispersione) producono delle forti detonazioni e si frammentano in sezioni di caucciù e residui metallici che possono conficcarsi profondamente nella cute e causare ferite gravi, finanche irreversibili (sezione di legamenti, nervi…).

All’esplosione proiettano circolarmente 18 proiettili di caucciù oltre alla spoletta metallica, si accompagnano ad una detonazione assordante (più di 150 db), colpendo in un raggio di 10 metri. Possono essere lanciate a mano, ma anche con i lanciagranate, la cui gittata arriva fino a 120 m.

Esse fanno parte dell’arsenale poliziesco dal 2004, quando Sarkozy ne ha annunciato l’adozione, nello stesso momento del Taser. Secondo le raccomandazioni della “commissione nazionale della deontologia e della sicurezza” devono essere utilizzate facendole rotolare al suolo e non gettate dall’alto e solamente “in un contesto di autodifesa ravvicinata e non per il controllo di una folla a distanza”.

 

Munizioni per i flashball

Questi proiettili, considerati inoffensivi (a letalità ridotta o attenuata), se colpiscono il viso o le parti sensibili possono comportare, a causa della loro forza cinetica, ferite gravi e mutilazioni. Mentre il proiettile a sinistra pesa 98 grammi, quello a destra 28g ma può raggiungere una velocità di 380 km/h con una potenza di 200 joules.

Taser

 Il Taser x26 è una pistola a impulsi elettrici utilizzata dalla polizia francese dal 2004. Nel 2008 polizia e gendarmeria ne avevano 3.800 e il suo uso è stato autorizzato anche per la polizia municipale. Ha una gittata di 7,60 metri, al contatto con il bersaglio libera onde da 50 mila volt. Quest’onda elettrica blocca il sistema nervoso provocando una rottura elettro-muscolare. Oltre a causare bruciature e danni cardiaci, il Taser può portare alla morte, com’è già spesso accaduto.

Le ferite delle armi non letali

Dall’introduzione di queste armi, i casi di gravi mutilazioni e di morti dovute agli interventi della polizia e della gendarmeria si sono susseguite. Le persone colpite e ferite si sono organizzate in realtà politiche, come “l’assemblea dei feriti”, che cercano di diffondere informazioni e aiutare le persone colpite ad autodifendersi e denunciare anche in tribunale la polizia.

Altre realtà hanno creato e diffuso dossier per sensibilizzare le persone sulla pericolosità delle armi non letali e mostrare i loro effetti sul corpo. Eccone un esempio tratto dal dossier sulle violenze poliziesche dell’associazione ACAT (acatfrance.fr/violences-policieres):

In Francia l’azione delle armi non letali si abbatte quotidianemente su chi partecipa a manifestazioni e lotte sociali. I ferimenti dei manifestanti sono ormai divenuti ordinari e molto spesso accettati dall’opinione pubblica e politica sempre in prima linea per “fermare i violenti”. Quando accade l’irreparabile con la morte di un manifestante ecco che si attivano potenti canali di mistificazione, menzogna e giustificazione preventiva volti a limitare le critiche all’operato di polizia e a legittimare le logiche di ordine pubblico.

Quando nel 2014 Rémi viene ucciso da una granata di disaccerchiamento vediamo in azione questo dispositivo, ricorrente anche in casi analoghi: fino a quando si può si cerca di negare e insabbiare l’accaduto, poi inizia la demonizzazione del “violento” che se l’è cercata. Solo se la determinazione riesce a far emergere con forza le condizioni dell’attacco poliziesco possono essere prese delle iniziative a livello giuridico e, molto raramente, politico.

In questo caso solo dopo settimane il poliziotto autore del lancio della granata omicida è messo sotto inchiesta, mentre, come sempre, non viene chiamata in causa la catena di comando legata alla gestione dell’ordine pubblico. Qualora delle iniziative politiche vengano messe in atto, esse sono nella più parte dei casi simboliche, limitate e temporanee. Le granate di disaccerchiamento sono state “messe in soffitta” per qualche mese dopo questo episodio, rapidamente sostituite da altri ordigni e novità tecnologiche, per poi ritornare a disposizione della polizia nel corso del secondo anno della mobilitazione contro la loi travail nel 2016.

Qui alcuni estratti da un testo che racconta l’atmosfera di quei giorni e la vicenda dell’inchiesta sulla morte di Rémi. Il testo integrale è disponibile qui !


Parigi, 3 novembre 2014

Domenica 26 ottobre un messaggio illumina il display del cellulare: “dopo la manifestazione di ieri alla ZAD del Testet è morto un compagno nel corso di scontri con gli sbirri in circostanze non chiare, appuntamento alle 19 a Saint Michel; fate girare”.

Questo lo stringato testo con cui la morte di un manifestante irrompe a Parigi avvisando alcuni tra coloro che si mobilitano sulle lotte nella capitale.

La ZAD del Testet è un terreno nel sudovest, vicino a Tolosa, dove il governo e alcuni grandi coltivatori vogliono costruire una mega diga per consentire la produzione intensiva del mais. Il tutto distruggendo un ecosistema (chiamato “zona umida”) ricca di specie rare, ma soprattutto devastando il volto del territorio, espropriando terre e imponendo la logica della “grande opera” come sola espressione dell’uso capitalista di un milione e mezzo di metri quadri di campagna, alberi, vite e villaggi.

Il giorno precedente, sabato 25 una grande manifestazione si è svolta nelle zone coinvolte dai lavori, cominciati con l’abbattimento di centinaia di alberi a suon di attacchi polizieschi sistematici a chi si oppone al progetto.

Ricevuto il messaggio inizia la ricerca d’informazioni sulla vicenda: un morto è una botta che stringe lo stomaco, il pensiero corre ai precedenti, a quando proiettili della polizia spezzano vite o infami lame fasciste ci sottraggono i nostri compagni. Una morte è l’irreversibile che ti si scaglia contro e la necessità di fare qualcosa per non subire in silenzio l’ennesima goccia di sfruttamento.

Nelle prime ore la sola notizia ufficiale è la scialba parola poliziesca: “un corpo di un giovane è stato trovato verso le 2 di notte nella zona interessata dal cantiere della diga del Testet”, il tanfo di menzogna si eleva subito mentre i primi racconti dei compagn* presenti sul posto parlano di una notte di scontri, di feriti, di pioggia di flashball e granate e di campi ricoperti dalla fitta nebbia dei lacrimogeni mentre sono illuminati dai proiettori della polizia alla ricerca dei resistenti.

Il primo appuntamento è per vedersi e per capire un po’ meglio la situazione, il cielo scuro avvolge il centro parigino mentre, a pochi metri dalla fontana di s. michel, il ponte verso l’isola della cité è bloccato dalle camionette pronte a reagire. Gli interventi attaccano la polizia, le conferme ufficiali non ci sono, dev’esserci ancora l’autopsia, ma l’omicidio di stato emerge già: da sempre la polizia uccide in Francia, soprattutto nei quartieri popolari; nei momenti di lotta usa con sempre maggior frequenza un arsenale di armi dette non letali che hanno lo scopo di terrorizzare, mutilare e talvolta uccidere. (…)

L’indomani comincia la strategia coordinata di governo e media: dopo le menzogne della prima ora che parlavano di un cadavere trovato per caso in un bosco invece che di un corpo recuperato dai celerini in mezzo agli scontri intriso di sangue e trascinato come un sacco dietro le loro linee. Mentre la tesi di un assassinio con l’uso di granate o flashball inizia a prendere corpo grazie alle testimonianze dei presenti sui luoghi degli scontri, il procuratore incaricato dell’inchiesta sceglie accuratamente le parole: “ferito da un’esplosione” aggiungendo che gli inquirenti si muovono per “verificare il contenuto dello zaino” di Rémi. Il gioco è semplice, non potendo più negare la circostanza della morte legata alle iniziative di lotta, la volontà è trasformare in pericoloso blackbloc il ragazzo ucciso. Per due giorni il contenuto del suo zaino è stato al centro di allusioni dei media imboccati dalle dichiarazioni poliziesche fino a quando l’analisi tecnica ha trovato tracce di TNT, l’esplosivo militare contenuto nelle granate offensive della polizia.

Rémi è stato assassinato dal governo socialista che continua i progetti giganteschi al servizio del profitto e dai suoi sbirri che schiacciano, mutilano, uccidono chiunque non accetti battendo le mani una vita di sfruttamento. (…)

Rémi aveva 21 anni e, appassionato della natura, ha incrociato l’esperienza umana e di lotta delle ZAD. È stato ucciso dalle armi della polizia francese, beffardamente chiamate non letali. Poteva essere chiunque di noi, tra chi resiste ai piccoli e grandi soprusi quotidiani. Quella notte Rémi ha visto i bagliori delle granate della polizia e annusato l’aria impregnata dai lacrimogeni. Chi era con lui l’ha visto allontanarsi verso coloro che resistevano agli attacchi polizieschi esclamando: “Allez! Il faut aller!”

Bisogna andare e bisogna esserci, dicevi, adesso sta a noi continuare.

 


È stato poi accertato dall’inchiesta che Rémi è stato ucciso da una granata di disaccerchiamento che è esplosa dopo essersi incastrata tra il suo zaino e la schiena. Le tracce di esplosivo nello zaino lacerato dall’esplosione erano quelle della granata gettata dalla gendarmeria come una bomba a mano verso i manifestanti. L’autore del lancio è stato ascoltato dal giudice in qualità di testimone ma non è stato accusato di alcuna mancanza tale da giustificare il suo processo. Il governo ha sospeso, in via cautelare, qualche giorno dopo i fatti di Sivens (ottobre 2014) l’autorizzazione ad impiegare questo specifico tipo di granate in contesti di ordine pubblico. Granate molto simili sono però correntemente in uso e sono arrivate ad un soffio da uccidere ancora in diverse occasioni, come nel maggio del 2016 durante le manifestazioni parigine contro la riforma del diritto del lavoro: Romain è stato ferito alla testa (frattura e sfondamento della scatola cranica) e si è ripreso solo dopo oltre una settimana di coma.

La logica legata all’impiego delle armi non letali in ambito di ordine pubblico si basa sia sulla loro possibilità di ferire delle persone isolandole dal resto dei manifestanti che soprattutto sulla paura che riescono a imporre su tutti/e quelli che partecipano alle mobilitazioni. In questo senso l’esibizione costante dei fucili flashball da parte di poliziotti e gendarmi gioca proprio il ruolo di configurarsi come minaccia permanente che può colpire chiunque. Questo aspetto è stato sottolineato da Pierre Douillard-Lefevre nel libro che ha scritto (L’arme à oeil) dopo aver perso un occhio durante una manifestazione universitaria:

“è in un paradosso che risiede la filosofia di queste armi: il package sub-letale del Flash-Ball e delle sue declinazioni banalizza l’atto stesso di fare fuoco, deresponsabilizzando il tiratore e insieme aumentando considerevolmente il potenziale mutilante della polizia. Il LBD 40 offre la certezza a chi lo utilizza di poter colpire precisamente il suo bersaglio. Per loro diametro le palle in caoutchouc di queste armi non perforano la pelle ma la loro forza cinetica percuote il corpo con una violenza considerevole: possono danneggiare un fegato, rompere una mascella, fermare un battito cardiaco (come successo a Mostefa Ziani nel 2010), traumatizzare il cervello o far esplodere un globo oculare. In qualche anno le palle di queste due armi hanno ferito migliaia di persone e ne hanno mutilato definitivamente diverse decine.

L’efficacia di queste armi è anche dovuta alla forza semantica del concetto di non letalità, inteso come strumento tecnologico di riduzione del danno e dunque percepito come tale dall’opinione pubblica, come scrive ancora Pierre Douillard-Lefevre:

La guerra securitaria in corso è anche una guerra semantica, a partire dal lessico poliziesco. Come l’espressione “gestione democratica delle folle” (utilizzata per designare la repressione), il “Lanciatore di palle di Difesa (LBD)” è un capolavoro di creatività, a metà tra il linguaggio burocratico, l’operazione di marketing e la propaganda poliziesca. Si tratta, innanzitutto, di occultare che un fucile dotato di visore militare, conosciuto per sparare delle palle di caoutchouc su dei civili è, per definizione, un’arma offensiva. Secondo i promotori l’arma non spara ma “lancia”, non è un’arma da fuoco ma uno strumento “subletale” o a “letalità ridotta”, oggi più pudicamente nominato “mezzo di forza intermediaria”.

Questa retorica attorno alle presunte migliorie delle armi cosiddette non letali se date in dotazione delle forze dell’ordine, accompagnata dalla solita cieca fiducia nelle evoluzioni tecnologiche, si ritrova anche al di fuori del confine francese come ritornello utilizzato da chi vuole diffonderne il ricorso anche in altri contesti.

In questo video, composto da estratti che abbiamo montato e tradotto da un servizio della tv francese, alcuni feriti dalla flashball testimoniano sulla loro esperienza, prima si vedono le unità della polizia impegnate negli addestramenti con queste armi (in caso selezionate i sottotitoli in italiano)

https://www.dailymotion.com/video/x6b855d


E in Italia?

 Il ricorso alle armi non letali in Italia è da anni al centro di un dibattito che vede protagonisti i partiti politici, le varie autorità delle forze dell’ordine e le loro organizzazioni sindacali. La retorica è basata sulla presunta necessità di uniformare la dotazione nostrana a quella delle altre forze dell’ordine europee, oltre alla cieca fiducia nelle innovazioni tecnologiche.

Il paradigma narrativo seguito è, a nostro modo di vedere, duplice.

L’obiettivo dichiarato è quello di reagire ad una “supposta” recrudescenza dello scontro sociale in piazza e alla “sempre maggior violenza di manifestanti e criminali”, rendendo più efficace le azioni di ordine pubblico. In modo più sfumato, vi è tuttavia anche la volontà di far breccia e sedurre anche coloro che auspicano una “smilitarizzazione” delle forze dell’ordine.

Si sostiene da più parti che il “rinnovamento” dell’equipaggiamento in dotazione alle forze dell’ordine sia volto a proteggere e tutelare sia gli agenti che, soprattutto, i manifestanti. Come dimostra questa intervista ad un ex giudice della Cassazione, esperto di legislazione sulle armi, comparso sul sito del Consap, sindacato di polizia[1], le armi “a letalità attenuata” come flashball e, nello specifico, il taser, servirebbero a tutelare maggiormente i “cittadini” e tutti quelli che incappano nelle maglie degli agenti di polizia. Il taser fa male? Sì. Può essere pericoloso? Certamente. Può causare traumi, può ledere organi interni, causare paralisi, infarti, può, se utilizzato in modo improprio o contro persone meno resistenti, portare perfino alla morte. Sicuro. Ma è meno letale di un revolver. Dunque, secondo questa tesi, il taser servirebbe sia a rendere più efficace l’azione delle forze dell’ordine che a rendere meno letale la loro azione nei confronti dei loro obiettivi.

Niente di più falso. Innanzitutto non si intende sostituire il revolver con la pistola elettrica, bensì aggiungere semplicemente un’arma, fra l’altro potenzialmente mortale, all’operatore di polizia, e quindi aumentare, non diminuire, la sua potenzialità offensiva. In secondo luogo, come dimostrano i dati provenienti da nazioni il cui utilizzo è piuttosto rodato, quali gli Usa, i feriti ed i morti da intervento di polizia aumentano (secondo le fonti di Amnesty International[2] dal 2001 al 2012 negli Usa ci sono stati almeno 500 morti a seguito del taser). La ragione è piuttosto ovvia: da una parte le armi da fuoco continuano ad essere utilizzate con frequenza, dall’altra dotando i poliziotti di dispositivi che si definiscono “quasi inoffensivi” e letali “solo se usati in modo improprio”, se ne legittima e quindi incentiva l’utilizzo, con lo stesso meccanismo della “banalizzazione dell’atto di sparare sui manifestanti” descritto per il caso delle flash ball francesi.

Lo stesso ex giudice della Cassazione lamenta la mancata attuazione, da parte governativa, dell’articolo 8 del decreto 119/2014 (c.d. decreto legge “stadi”, convertito in legge nell’ottobre 2014), il quale dava avvio della sperimentazione della “pistola elettrica” taser da parte delle forze dell’ordine.

“D.L. 119/2014, Art. 8 comma 1-bis. Con decreto del Ministro dell’interno, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’Amministrazione della pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione e previa intesa con il Ministro della salute, la sperimentazione della pistola elettrica Taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali, nei limiti dì spesa previsti dal comma 1, lettera a)”

In effetti, a seguito della conversione in legge del suddetto decreto risulta formalmente possibile in Italia dare il via a delle sperimentazioni d’impiego del taser. Se ciò non è ancora avvenuto appare conseguenza più della “macchinosità” burocratica e degli imperativi di contenimento della spesa pubblica, che di una reale volontà politica. Essa infatti si era già espressa anche a livello giuridico in favore dell’adozione di queste armi non letali, e in prospettiva, quindi, anche di altre.

 La volontà di dotazioni di armi non letali è stata formulata, infatti, in numerose occasioni: alcuni sindacati ne hanno più volte richiesto l’adozione, in particolare il destrorso Coisp autore delle vigliacche provocazioni alla famiglia Aldrovrandi. L’ex capo della Polizia Pansa ne era un fervente sostenitore per cambiare paradigma di gestione delle folle, trovando sponde politiche nei vari partiti, al governo e all’opposizione.

Un testo redatto da due alti dirigenti della polizia in collaborazione con un ricercatore sociale, “arricchito” da una prefazione proprio di Pansa, raccoglie le statistiche sull’impiego di uomini e mezzi e sui feriti tra le forze dell’ordine del decennio 2005-2015[3]per offrire all’opinione pubblica la narrazione dell’incremento sistematico della violenza nel corso delle manifestazioni di piazza e dettagliare le possibili innovazioni da adottare urgentemente. Il tutto condito con un classico caso d’impiego strumentale delle statistiche per rendere inattaccabile tale posizione[4].

L’Associazione Funzionari di Polizia (Afdp), basandosi proprio su questo scritto, ha fatto richieste precise: “Mancano strumenti per limitare contatti con violenti a cortei. Task force antisommossa, scudi in kevlar più leggeri e resistenti, la possibilità di utilizzare proiettili di gomma e fucili marcatori per tenere lontani ed identificare i violenti: i poliziotti chiedono al governo una serie di investimenti e di misure per migliorare la gestione dell’ordine pubblico. La Polizia risente oggi della carenza di strumenti utili a limitare le occasioni di contatto con i manifestanti» durante i cortei (Comunicato Ansa della Afdp, Roma, 27.10.2015)

Proprio dal 2015 si è aperta in Italia la possibilità di equipaggiare le forze dell’ordine con armi non convenzionali individuali: dispositivi di gas al peperoncino sono stati dati in dotazione a polizia e carabinieri dopo che per qualche anno sono stati sperimentati da diversi corpi di polizia municipale.

Come accaduto con l’introduzione e diffusione dello spray al peperoncino, ciò può essere replicato con altre armi non letali. Il taser e i proiettili di gomma sono quelle più volte richieste da politici e forze dell’ordine (per trasparenza si possono segnalare i dubbi espressi, sempre nel 2015, dalla Silp-Cgil sull’adozione del Taser) e non sorprenderebbe nessuno se in tempi anche relativamente rapidi la situazione si dovesse evolvere in questa direzione. L’ostacolo maggiore, oltre all’inquadramento normativo del loro utilizzo nelle missioni degli agenti incaricati di servizio pubblico, risulta essere l’aspetto economico legato all’acquisto del materiale e alla formazione del personale.

Disarmiamo la polizia, disarmiamo l’economia

Si può inoltre fare riferimento alla gendarmeria europea (Eurogendforce) che, in prima linea in particolare nel fronte del contrasto alle migrazioni può, da regolamento[5], essere impiegata anche in situazioni di manifestazioni di piazza.

Inoltre, durante le esercitazioni di questa forza dell’ordine europea, che vedono spesso l’Italia come luogo privilegiato (basti pensare che una delle sedi più importanti si trova a Vicenza, stretta tra due delle più grandi basi militari americane nella Penisola) si è già visto in azione un vasto arsenale di armi non letali.

Queste esercitazioni consentono un addestramento misto tra forze armate dei diversi paesi europei e sono un momento di sperimentazione che ha la finalità di valutare l’adozione futura delle armi utilizzate.

Se al giorno d’oggi le armi non letali non sono ancora pienamente iscritte nella dotazione ordinaria delle forze di polizia è tuttavia in atto un processo di avvicinamento e sperimentazione alla loro introduzione nel contesto italiano. Già da qualche anno si possono segnalare dei casi di introduzione a titolo temporaneo di nuove tecnologie impiegate nell’ordine pubblico ben sapendo che lo stadio della sperimentazione non è null’altro che il primo passo dell’adozione, poiché non si torna indietro una volta sdoganata una nuova tecnica.

Il paradigma del ricorso ad armi non letali è un terreno nel quale l’investimento tecnologico di ricerca e sviluppo ingegneristico propone innumerevoli soluzioni a diverse problematiche. Esistono numerosi gruppi di ricerca indirizzati a sviluppare nuove armi e nuove tecniche per il controllo del territorio e per offrire nuovi strumenti alle forze dell’ordine. Si possono citare in particolare le evoluzioni nel campo dell’uso del suono come strumento repressivo e le notevoli innovazioni nel campo del controllo a distanza con droni e tecnologie varie indirizzate a monitorare comunicazioni e spostamenti[6].

L’adozione delle nuove armi tuttavia non è assolutamente un ambito a sé stante nell’organizzazione della repressione. Gli stessi membri delle forze dell’ordine accompagnano la propria lista degli acquisti auspicati per incrementare le dotazioni tecniche con numerose sollecitazioni a riforme che consentano più margine di manovra nelle operazioni di ordine pubblico e nell’identificazione e fermo dei sospetti. L’arresto in differita, recentemente utilizzato nel corso delle manifestazioni di Torino contro il G7[7], ne è uno tra gli esempi più recenti.

Tutti detestano la polizia

La logica legata all’adozione di nuove armi nel contesto dell’ordine pubblico si alimenta della fede nella presunta neutralità della tecnologia che propone “senza dubbio” delle migliorie. Coniare il termine di “non letalità” è in questo senso particolarmente interessante: accanto alla continua produzione di armi sempre più mortali si affianca la ricerca di una “micidiale non letalità” il cui obiettivo è di coniugare una potenza sempre crescente con la promessa di non produrre la morte o quantomeno assicurare una “letalità attenuata”. In questo terreno l’innovazione tecnologica diviene, in quanto tale, lo strumento più adatto e “avanzato” per operare nell’ordine pubblico: isola gli individui da colpire e li mantiene a distanza salvaguardando gli agenti. Quando la tecnologia è appropriata, approvata e il suo impiego è previsto, se qualcosa va storto la colpa è forse dell’esemplare difettoso o più spesso del bersaglio che, muovendosi, ha causato conseguenze non previste. E coloro che manipolano queste armi possono godere di una deresponsabilizzazione, in quanto, nonostante siano, in potenza, assassini e mutilatori, si limitano ad essere semplici operatori.

Si possono vedere delle analogie tra l’impiego delle armi non letali e la banalizzazione nel loro impiego quotidiano che richiamano le modalità di uso dei droni da combattimento. I droni, gioielli di tecnologia avanzata, possono teletrasportare bombe a migliaia di km di distanza dall’operatore che, premendo un pulsante, assiste allo schermo alle conseguenze di questo minimo gesto: il dare la morte. La tecnologia incorporata nel drone è una sorta di garanzia della sua efficacia e chi poi materialmente lo aziona non si sente, ne può esserlo, giudicato per degli eventuali errori. È la fiducia nell’affidabilità della tecnologia che consente la deresponsabilizzazione di chi le manipola; un altro esempio è quello delle prove legate al Dna, considerate granitiche per antonomasia senza mai prendere in conto i possibili errori o le manipolazioni.

L’impiego delle armi non letali e soprattutto i contesti in cui esse vengono più spesso utilizzate richiamano da vicino la logica di guerra. Tengono a distanza, rendono inoffensivi, disperdono, mettono fuori combattimento i nemici pubblici nel fronte interno del mantenimento dell’ordine, pubblico o costituito che sia. Le retoriche di criminalizzazione e demonizzazione delle varie categorie sociali divenute bersaglio mobile di granate e proiettili di gomma sono necessarie per giustificare tale impiego: non verso i democratici cittadini modello ma contro i teppisti, gli ultras, i blackbloc, le bande di periferia.

La consapevolezza di questo cambio di passo nella strategia della repressione statale deve spingerci ad affrontare al meglio la battaglia contro queste ed altre armi che il capitalismo scatena sempre più contro i corpi indocili di chi non si arrende e vuole cambiare con la lotta lo stato di cose attuale. È un fatto che tecnologia e tattiche di tipo militare vengano brandite e prendano sempre più piede, appena un po’ mascherate da retoriche ipocrite nella repressione dell’antagonismo sociale e politico. E questo a prescindere dal differente colore dei governi e dalla latitudine geografica in cui ci si trova. È un processo in atto che coinvolge gli apparati istituzionali delle “democrazie” europee ed extraeuropee. Ma così come le “armi non letali” sono volte a individualizzare, terrorizzare, mutilare e disperdere il dissenso sociale, così i movimenti, gli antagonisti, i compagni e le compagne possono reagire facendo “fronte comune”. È necessario, oltre alla diffusione di conoscenze, approfondimenti e riflessioni, organizzarsi, creare vincoli e trasversalità tra realtà diverse che possano agire su tutti i campi possibili. E tutto ciò a partire proprio da quelle realtà politiche e sociali che sono l’obiettivo delle nuove e vecchie armi di repressione poliziesca, come nell’esempio delle assemblee delle vittime della violenza delle polizia promosse dal “collettivo 8 luglio”.

Armi non letali…col cavolo! La polizia uccide!

 Le frasi e le immagini che accompagnano il testo sono tratte dai manifesti realizzati dal collettivo “huit juillet”.

Questo opuscolo è stato realizzato grazie ad una serie di contatti e collaborazioni.

Bisogna ringraziare per l’occasione di approfondire questo tema i compagni e le compagne di Alte/Reject per aver organizzato una serata di discussione al circolo la Mesa di Montecchio Maggiore (Vicenza) sulla repressione dei movimenti e l’impiego delle armi non letali.

Lollo ci ha aiutato con il lavoro di preparazione dei materiali video e grafici.

Le riflessioni sulla situazione francese sono proposte da alcune realtà di movimento transalpine oltre a derivare dall’esperienza diretta.

Vogliamo ringraziare in particolare il collettivo 8 juillet – Se défendre de la police di Montreuil per averci fornito molto materiale utile che potete trovare (in francese) su: collectif8juillet.wordpress.com.

Errico ha tradotto estratti del libro di Pierre Douillard-Lefevre (L’arme à œil, Le bord de l’eau ed., 2016) mettendoli gentilmente a disposizione.

Prison Break Project

Note:

[1]          consaproma.wordpress.com (post del 10/08/17).

[2]          www.amnesty.org/en/latest/news/2012/02/usa-stricter-limits-urged-deaths-following-police-taser-use-reach/

[3]Si tratta di: Armando Forgione, Roberto Massucci, Nicola Ferrigni Dieci anni di ordine pubblico, eurlink, 2015.

[4] Come esplicitato nell’articolo di Enrico Gargiulo disponibile qui : www.lavoroculturale.org/dieci-anni-ordine-pubblico.

[5] Trattato di costituzione di Eurogendfor, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 14 Maggio 2010, art.3: “Eurogendfor potrà essere utilizzata al fine di: a) condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; (…) c) assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; (…) e) proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici”.

[6] Si possono citare i testi Il suono come arma di Juliette Vocler e Teoria del drone di Grégorie Chamayou, entrambi editi da DeriveApprodi.

[7]La vicenda è descritta qui : www.infoaut.org/approfondimenti/arresto-in-flagranza-differita-di-quale-sicurezza-ci-parla-l-arresto-di-andrea.

Sorgente: Quando lo stato spara sulla folla – Dossier sulle armi non letali – Osservatorio Repressione

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