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PREGHIERA PER QUATTRO SPADE SPEZZATE

(Gianni Sartori)*

 “Ez dute uzten maitatzen gauean

ez agurrik ez negarrik gauean

ez zergatik ez norarik gabe

sirenotsa garraixi bakarra gauean”

 Anche quando per tutti e per sempre  “rende” tornerà ad essere soltanto la terza persona dell’indicativo presente del verbo rendere, quando il nome di sfruttatori e aguzzini sarà definitivamente disperso nelle nebbie del nord-est….

il battito dei loro nomi – Antonietta, Lorenzo, Angelo, Alberto – risuonerà intenso nelle mente e nel cuore di chi avrà fame e sete di giustizia.

 

Hanno lottato, hanno combattuto. Hanno perso? Forse. O forse no. Riposino in Pace. Come è giusto e così sia. Compagni per sempre.

 

…NON VOGLIAMO DISCUTERE DI FRONTE AL NEMICO LA LORO MORTE…

 

A 40 ANNI DALLA MORTE DI ANTONIETTA, ANGELO, ALBERTO, LORENZO

 

 

Negli anni settanta del secolo scorso il protagonismo politico e sociale delle classi subalterne conobbe una forte radicalizzazione.

Anche nel Veneto, considerato, forse a torto,  una sorta di “Vandea” bianca e bigotta. Ma che era stato periodicamente percorso da stagioni di lotte significative: dal “furto campestre di massa” a La Boje, dalle “Leghe bianche” (che in genere operavano come quelle “rosse”) alla Resistenza (v. i durissimi rastrellamenti del 1944: Malga Zonta, Asiago, il Grappa, il Cansiglio…).

Senza dimenticare la rivolta operaia di Valdagno del 19 aprile 1968. E non mancarono, dalla Bassa padovana all’Alto Vicentino, componenti libertarie. All’inaugurazione di una delle prime sedi sindacali a Schio partecipò Pietro Gori (l’autore di Addio Lugano bella). Una tradizione  testimoniata da personaggi come il compagno anarchico “Borela”, un Ardito del Popolo che accolse i fascisti in marcia verso Schio a pistolettate. Per non parlare di uno dei fondatori del Pcd’I, Pietro Tresso (“Blasco”, comunista dissidente, ucciso in Francia da agenti della Ghepeù stalinista) e di Ferruccio Manea (il “Tar”), eroico comandante partigiano ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”. Tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta a Vicenza era presente un gruppo anarchico, il MAV, molto attivo nella denuncia delle istituzioni totali. Altri gruppi a Schio, Valdagno e Marano vicentino (Circolo operaio anarchico).

Di questa tradizione si alimentarono le lotte di autodifesa proletaria contro i devastanti progetti capitalisti degli anni settanta. Progetti che trasformarono gran parte della terra veneta in un’alienante territorio urbanizzato, il modello nordest della “fabbrica diffusa”. Contro la drastica ristrutturazione produttiva (licenziamenti, lavoro nero e precario, intensificazione dello sfruttamento, inquinamento ambientale…) sorsero alcune inedite forme di autorganizzazione come i Gruppi Sociali, i Coordinamenti Operai, l’Opposizione Operaia. I metodi non furono sempre eleganti, ma sappiamo che “non è un pranzo di gala”.

La nuova Resistenza fu particolarmente attiva lungo la fascia pedemontana dell’Alto Vicentino in località come Schio, Piovene, Thiene, Lugo, Chiuppano, Sarcedo, Calvene, Bassano…

Il 7 Aprile 1979 è passato alla Storia come la data dell’arresto di alcuni esponenti dell’area dell’Autonomia Operaia organizzata (Negri, Vesce, Ferrari Bravo…). Nel vicentino la mobilitazione è immediata. Per l’11 aprile è prevista una manifestazione nazionale a Padova e la sera precedente a Schio si organizza un’affollata assemblea del movimento. In seguito i partecipanti rischieranno di essere incriminati perché l’assemblea pubblica verrà classificata come “riunione del servizio d’ordine” in cui sarebbero stati pianificati futuri attentati. L’11 aprile la manifestazione nazionale si svolse al Palasport dell’Arcella (Padova) con la partecipazione di circa seimila persone. Ma contemporaneamente a Thiene esplodeva una bomba rudimentale uccidendo i tre giovani che la stavano confezionando. Si trattava di Antonietta Berna (22 anni), Angelo Dal Santo (24 anni) e Alberto Graziani (25 anni), tre noti e attivi militanti dell’Alto Vicentino.

Resasi indipendente dalla famiglia, Antonietta viveva di lavoro nero svolto a domicilio. Angelo Dal Santo, operaio, nel 1978 era entrato nel consiglio di fabbrica della LIMA di Lugo.

Grazie al suo impegno i lavoratori di questa fabbrica metalmeccanica avevano ottenuto migliori condizioni normative e salariali. Aveva poi organizzato picchetti e ronde contro gli straordinari. Partecipò  all’occupazione di case sfitte e della “Spinnaker”. Ai suoi funerali, oltre a centinaia di compagni, erano presenti tutte le operaie di tale fabbrica.

Alberto Graziani, studente universitario, aveva preso parte a tutte le iniziative del movimento: lotte per la casa e contro gli straordinari, organizzazione di precari e disoccupati…

In un comunicato del 1° maggio 1979 i tre militanti vennero ricordati dal “Comitato per la liberazione dei compagni in carcere”:

Come movimento comunista, al di là delle attuali differenze interne, rivendichiamo la figura politica di questi compagni. Maria Antonietta Berna, Angelo Dal Santo, Alberto Graziani sono stati parte integrante nella loro militanza di tutte le lotte dei proletari della zona. Sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata e organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna disputa di linea politica e le differenziazioni di impostazione e di analisi e di pratica dentro il movimento possono offuscare e negare l’appartenenza di questi compagni all’intero movimento rivoluzionario, a tutti i comunisti. Di fronte all’iniziativa del nemico di classe, alle iniziative repressive, al terrore fisico e psicologico, al terrorismo propagandistico, allo stravolgimento e strumentalizzazione dei fatti, l’intero movimento di classe deve rivendicare a sé questi compagni caduti, per non dimenticare, per ricordare. Non vogliamo discutere di fronte al nemico la loro morte, essa vive oggettivamente e soggettivamente dentro il movimento di classe in Italia, alla sua altezza e nelle sue difficoltà, nel suo sviluppo fatto con la vita e con la morte di migliaia di compagni lungo una strada che porti fuori dalla barbarie capitalistica e dalla miseria del socialismo reale, per il comunismo. A questa strada difficile questi tre compagni hanno dato comunque il loro contributo, la loro vita. Per questo, oggi più che mai, sono con tutti noi”.

La sera stessa arrivano i primi arresti. Vengono incarcerati Chiara, moglie di Angelo; Lucia, compagna di Alberto; Lorenzo, compagno di Antonietta. Nel giro di poche ore anche Corrado e Tiziana che abitavano con Chiara e Angelo. Un altro ordine di cattura viene spiccato contro  Donato, al momento irreperibile. Nel frattempo vengono eseguite decine di perquisizioni e si effettuano numerosi fermi. Un gran numero di posti di blocco trasforma i dintorni di Thiene in un quartiere cattolico di Belfast. Tutti coloro che in qualche modo avevano a che fare con il Gruppo Sociale di Thiene rischiano ora l’incriminazione per banda armata. Agli arrestati vengono contestati: l’appartenenza ad una associazione sovversiva costituita in banda armata; il concorso nella fabbricazione dell’ordigno esplosivo e nella detenzione di armi; il concorso in tutti gli episodi avvenuti nel Veneto negli anni precedenti. Fino al concorso morale nella morte dei tre giovani di Thiene. In un documento presentato da un imputato alla Corte d’Assise (“Quegli anni, quei giorni, autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”) viene riportato che “la sera dell’11 aprile Chiara, Lucia e Lorenzo vengono condotti all’obitorio dell’ospedale di Thiene e lì costretti al riconoscimento dei corpi straziati e devastati”. E aggiunge “…il riconoscimento venne effettuato con criteri infami usandolo come deterrente per tutti i compagni”.

Lorenzo Bortoli (operaio decoratore alla Blue Bell di Bassano, 25 anni) subisce l’isolamento totale per quasi un mese. Dopo l’isolamento viene messo in cella con un altro imputato che starebbe già collaborando con i giudici, all’insaputa di tutti. Ricorda un suo amico che “gli si è voluto spezzare violentemente ogni possibilità di socializzazione, di vivibilità, di solidarietà all’interno del carcere, costruendogli addosso e attorno una realtà che solo attraverso la decisione di darsi la morte poteva negare”. Il primo tentativo di suicidio è del giorno 11 maggio con una ingestione di Roipnol. La direzione del carcere cercherà, invano, di farlo passare come un episodio di uso di sostanze stupefacenti. Numerose mozioni del Comitato Familiari

che esprimono preoccupazione per la vita di Lorenzo, saranno sottoscritte da consigli di fabbrica e di quartiere. Anche sindacati e partiti intervengono affinché si ponga fine alla detenzione del giovane garantendogli la possibilità di ricostruirsi un equilibrio psico-fisico. Ma tra il primo e il secondo tentativo di suicidio (22 maggio) i magistrati spiccano un nuovo mandato di cattura accusandolo di aver preso parte ad alcune rapine. In realtà in quei giorni Lorenzo si trovava al lavoro. Il 29 maggio l’avvocato Carnelutti, suo difensore, presenta un’istanza con cui chiede la libertà per Lorenzo Bortoli e per Chiara Dal Santo che tra l’altro aspetta un figlio. La richiesta è motivata da “gravi e preoccupanti motivi di salute”. E ancora, quasi una premonizione: “Un possibile irreparabile danno all’integrità psico-fisica dei due giovani peserebbe sul processo”.

Ma il 31 maggio l’istanza viene respinta e le accuse ribadite, anche l’omicidio colposo nei confronti di Antonietta Berna. Il 18 giugno Lorenzo Bortoli viene trasferito con destinazione Trento. Sosta nel carcere di Verona e viene sistemato in una cella da solo. L’avvocato Carnelluti deposita a Vicenza un’istanza (che fa arrivare direttamente al G.I.) in cui segnala “il delicato stato di salute di Lorenzo Bortoli (fra l’altro reduce da due autentici tentativi di suicidio e da provocazioni di un coimputato assai sospetto) e mi preoccupo per l’atmosfera squallida di un carcere che non è certamente tra i migliori. Perché questa scelta? Da chi viene?”. Raccomanda inoltre di “valutare attentamente l’intenzione del mio difeso di restare solo in cella dal momento che le esperienze negative del passato legittimano il sospetto che ogni compagno di cella possa essere un provocatore”. Ma ormai il destino di Lorenzo sta per compiersi. Si toglie la vita impiccandosi nella notte tra il 19 e il 20 giugno**. Il suo ultimo desiderio, quello di poter essere sepolto con Antonietta si realizzerà solo in parte: le due tombe sono distinte ma comunque vicinissime.

Gianni Sartori

 

*nda Per una serie di vicende personali chi scrive non ha partecipato di persona alle lotte della seconda metà degli anni settanta di cui si parla nell’articolo. Credevo anzi di aver concluso la mia militanza, iniziata davanti alla Ederle nell’ottobre 1967, con le manifestazioni del settembre 1975 al consolato spagnolo di Venezia per protestare contro la fucilazione di due etarras e di tre militanti del FRAP. A farmi ricredere, nel 1981, la morte per sciopero della fame di Bobby Sands e di altri nove repubblicani dell’IRA e dell’INLA (contemporaneamente a quella di un prigioniero politico basco dei GRAPO).

Quindi soltanto negli anni ottanta ho conosciuto alcuni di quei compagni dell’Alto Vicentino che avevano subito la repressione del 7 aprile. La mia prima impressione fu che in questa area pedemontana la “breve estate dell’Autonomia” avesse avuto caratteristiche simili a quelle dell’Irlanda del Nord e di Euskal Herria, sviluppando un’idea di “società molto orizzontale” (così Eva Forest mi spiegava la lotta dei baschi).

 

** nota 2: La tragica fine di Lorenzo suscita l’indignazione – a livello locale – addirittura del PCI, il partito ritenuto mandante dell’operazione “7 Aprile” di Calogero.

 

Comitato di zona Partito Comunista Italiano, “Un suicidio che riempie di sdegno, Thiene 21-6-79

 

“Apprendiamo con profondo sgomento e indignazione la notizia della morte, nel carcere di Verona, di Lorenzo Bortoli. E’ accaduto ciò che si temeva e ciò che le forze dell’amministrazione della giustizia erano tenute ad evitare. Era infatti evidente che dopo 2 tentativi di suicidio Lorenzo Bortoli si trovava in uno stato psicofisico di estrema prostrazione e che, in mancanza di cure adeguate, di un’attenta assistenza e sorveglianza, di un trattamento più umano e non assolutamente segregante, non avrebbe desistito nel suo intento di togliersi la vita. Proprio queste cure, questa assistenza, avevamo

sollecitato aderendo all’appello del 30 Maggio lanciato da alcune personalità e cittadini democratici sul Giornale di Vicenza. Anche alla luce di ciò, il comportamento delle autorità giudiziarie e dell’amministrazione carceraria è tale da suscitare sdegno e riprovazione, in quanto si è dimostrato insensibile e incurante verso il diritto fondamentale di ogni essere umano: il diritto alla vita, e verso i diritti costituzionali di un imputato di potersi difendere, nella pienezza delle proprie facoltà intellettuali e fisiche, dalle accuse mossegli. Il suicidio di Lorenzo Bortoli è quindi un fatto di eccezionale gravità. Le responsabilità nel comportamento delle autorità carcerarie e giudiziarie vanno perciò indagate e punite, per salvaguardare i valori dello stato di diritto e le garanzie che la Costituzione da ad ogni cittadino.”

 

 

 

 

 

*** nota 3

Qui riporto integralmente il comunicato del CSA Arcadia contro i fascistelli locali che avevano minacciato una mobilitazione contro la prevista mostra dei dipinti di Lorenzo Bortoli.

 

“Sono trascorsi 40 anni, ma ancora non è permesso ricordare collettivamente quattro vite, quattro persone, quattro compagni e compagne.

Tuttavia, nonostante in troppi abbiano cercato di nasconderlo come se niente fosse, dopo 40 anni quel ricordo è ancora vivo e fervido in una moltitudine di persone: di fronte ad un evento tanto tragico quanto importante, non può esistere silenzio.

A dimostrarlo sono tutte quelle figure che, continuamente osteggiate, ricordano e vogliono continuare a ricordare Alberto, Angelo, Maria Antonietta e Lorenzo.

In questi giorni, come purtroppo ciclicamente accade, la questione è tornata alla ribalta nelle pagine dei giornali locali perché qualcuno ha avuto la “sfacciataggine” di presentare all’amministrazione comunale di Thiene la richiesta di collaborazione nell’organizzazione di una mostra dei dipinti di uno dei quattro ragazz* che persero la vita quel giorno.

Ed ecco subito levarsi gli scudi difensivi: dai peggiori fascisti (capeggiati da un vero criminale, Roberto Fiore) agli animi più “democratici” e appartenenti all’amministrazione locale, hanno sentito il bisogno di esprimere le loro rimostranze.

A loro avviso non si dovrebbe tenere nessuna mostra, nessun ricordo e nessuna testimonianza dovrebbero avere voce! Nessuno dovrebbe permettersi di parlare di quegli anni tanto tragici quanto importanti, non una parola dovrebbe essere spesa sulle esperienze e sulle persone che hanno reso più vivo questo territorio: in sostanza, nessuna legittimazione a chi era parte dei processi politici e di cambiamento, a chi viveva in un corpo sociale ampio e variopinto, che parlava a tante e tanti e si batteva a fianco degli emarginati, degli oppressi, dei subalterni.

Chiaro come un mantra arriva quel concetto che vuole imporre una logica unica ed esclusiva: “la lettura di quegli eventi e dei loro protagonisti è negata a coloro che li hanno attraversati ed è, al contrario, prerogativa assoluta di chi li ha combattuti e denigrati”.

Ed è su questi principi che oggi vogliamo essere chiari ed espliciti.

Non siamo più disposti a rimanere in silenzio, a fingere che in questa provincia tanto ricca e produttiva quanto divoratrice di dignità e libertà, non ci sia mai stato nulla in grado di costruire legami veri e forti nelle pratiche di lotta e di rivendicazione di diritti.

Non ci stiamo a tacere di fronte a quella che è anche la nostra storia, la storia dalla quale proveniamo, dalla quale sono nate le esperienze di movimento, le conquiste di diritti, il contrasto dei privilegi e le battaglie che negli anni hanno attraversato questo territorio.

Auspichiamo che la mostra da cui è nata quest’ultima farsa polemica abbia la possibilità di tenersi e di essere attraversata da più persone possibili, indipendentemente dalle critiche e dalle vere e proprie minacce che si sono levate.

Ci teniamo inoltre a chiarire che se qualcuno crede di poter ostacolare il ricordo di quelle quattro persone con la prevaricazione, la censura o le azioni squadriste ci troverà pronti a contrastarlo.

Vogliamo quindi invitare tutti e tutte ad un doppio appuntamento di avvicinamento alla data dell’11 Aprile 2019: un’occasione di approfondimenti di quella che fu un’esperienza politica che segnò in modo indelebile il nostro territorio e un momento di ricordo condiviso di Alberto, Angelo, Maria Antonietta e Lorenzo.

Come recitava un volantino di tanti anni fa “ci sono vite che pesano come piume e vite che pesano come montagne”.

 

Bibliografia minima:

1) “Quegli anni, quei giorni – autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979

(E’ un testo ricco di informazioni di carattere storico, indispensabili per comprendere il contesto dei tragici avvenimenti del 1979. Realizzato da un imputato vicentino del processo “7 Aprile-Veneto”, fotocopiato in proprio – pro manuscripto – forse reperibile in qualche Centro di documentazione ndr)

2) “E’ primavera. Intervista a Antonio Negri” di Claudio Calia, BeccoGiallo edizioni, 2008 (a fumetti)

3) “Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie” (2 volumi) a cura di S. Bianchi e L. Caminiti, DeriveApprodi, 2007

4) “Anni di sogno e di piombo” di Alessandro Stella, Ed. Arcadia 2015

5) “Gli autonomi – vol. 5. L’autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione (1968-1979)” di Donato Tagliapietra, DeriveApprodi 2019

6) Ed eventualmente, per conoscere anche l’altra campana: “Terrore Rosso – dall’autonomia al partito armato” Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, editori Laterza, 2010

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