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La nave Alan Kurdi naviga a zig-zag col mare grosso e al limite delle acque maltesi in attesa di un via libera. La Commissione europea: siamo in contatto con i Paesi Membri

Tutto tace a livello europeo, mentre le onde di cinque metri si infrangono contro il ponte della nave Alan Kurdi in mare da 7 giorni: il meteo è in peggioramento e a bordo le 64 persone salvate, assieme all’equipaggio formato dai 17 soccorritori, sono ancora in attesa di ricevere l’indicazione di un porto sicuro. Si parla di 81 persone, tra loro anche 12 donne e due bambini: tenuti in ostaggio di quello che è diventato oramai dopo ogni operazione di salvataggio in mare un vero e proprio rimpallo istituzionale per l’assegnazione del place of safety.

A bordo «abbiamo molte più persone rispetto alla capacità di trasporto della Alan Kurdi. Tuttavia, chiunque è più al sicuro sulla nostra nave che su un gommone che affonda. Da un punto di vista legale non può esserci alcuna discussione sul nostro obbligo al salvataggio» ha spiegato Carlotta Weibl, portavoce di Sea Eye, la cui nave già mercoledì scorso aveva completato l’operazione di soccorso – come è emerso dai documenti resi disponibili e pubblicati online dalla Ong tedesca – nelle cosiddette acque di contiguità, a 20 miglia dalla città libica di Zuara. Poiché dalla cosiddetta Guardia costiera di Tripoli non è mai arrivata alcuna comunicazione riguardo un possibile coordinamento per i “soccorsi” in mare e non ritenendo la Libia un Paese sicuro, la nave Alan Kurdi, informando direttamente le centrali operative di Roma e La Valletta, ha fatto rotta verso Lampedusa – prima che saltasse la trattativa tra Italia e Germania sull’accoglienza delle famiglie – e in seguito Malta.

Da allora nessuna novità per i salvati e per i soccorritori. Quale sarà, dunque, il loro destino?
La Commissione europea ha ribadito che i contatti avviati già venerdì per permettere lo sbarco delle persone – come confermato da una portavoce della Commissione, Tove Ernst «sono ancora in corso».

In queste ore di attesa e di condivisione dei pasti e di razionamento dell’acqua, Evans, una delle donne nigeriane a bordo ha provato a raccontare ai volontari di Sea-Eye la sua deportazione in Libia, in quella che ha chiamato connection house, dove i profughi vengono tenuti reclusi prima di farli imbarcare sui gommoni. «Sono stata minacciata di morte, quando mi sono rifiutata di fare quello che gli uomini che mi tenevano prigioniera, volevano che facessi» spiega, alludendo alle violenze sessuali, ma anche ai soldi che gli aguzzini volevano estorcere da lei e dalla sua famiglia. «Quello che ancora non è stato detto di queste 64 persone che sono a bordo con noi è che non vogliono venire in Europa, ma stanno scappando dagli orrori della Libia», ha ribadito Valeria, il medico a bordo della Alan Kurdi.

La sua è una «lotta alla sofferenza e al dolore» dell’umanità ferita, di persone migranti come Evans e Benjamin che raccontano della Libia come «il più spaventoso Paese dove sono mai stato» perché «sono stata venduto due volte». «Non consiglierò a nessuno dei miei familiari di venire in Libia» aggiunge Benjamin dal ponte della Alan Kurdi. Ma «vi prego di aiutarci. Sappiamo che è pericolosa la traversata verso l’Europa, ma non abbiamo altra scelta, se non lasciare la Libia» ha aggiunto ancora Evans con la voce rotta.

Nelle prossime 24 ore il capitano della nave che porta il nome del piccolo curdo-siriano trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, con una rotta a zigzig manterrà la sua imbarcazione in acque internazionali, a poche miglia dal confine delle acque territoriali maltesi, dove «non entreremo senza l’autorizzazione di Malta». Va ricordato che la settimana scorsa anche l’Italia, come Malta, aveva negato l’accesso alle proprie acque territoriali e aveva proposto l’evacuazione soltanto di madri e figli; motivo per cui la nave umanitaria della Ong tedesca Sea-Eye in attesa di una mediazione a livello europeo rimane entro il limite delle 12 miglia dalle coste dell’isola: «Le persone salvate devono sopportare condizioni insostenibili – ha lamentato ancora lunedì la portavoce di Sea-Eye, Weibl – Parte di loro deve dormire all’aperto sul ponte della nave, esposta al vento, alle onde e al freddo».

Sorgente: «Non rimandateci all’inferno libico»: il grido della nave senza porto

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