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Veronica Gago del collettivo argentino Ni Una Menos, racconta le origini del nuovo ciclo di lotte femministe, l’intreccio tra sfruttamento di genere ed economico nel contesto del laboratorio argentino di Mauricio Macrí

Da qualche anno l’8 marzo è tornato a essere una giornata di lotta, soprattutto grazie alle intuizioni arrivate dall’Argentina qualche anno fa. Tutto nacque con un semplice appello di giornaliste e docenti che diceva basta ai femminicidi. Da lì in poi, giorno dopo giorno, assemblee dopo assemblee, arrivò l’idea di virare un antico strumento di lotta come lo sciopero e trasformarlo in qualcosa di nuovo. In Argentina dopo il 2001, e la grande crisi dell’idea neoliberale che aveva trasformato il paese in una sorta di laboratorio economico politico, l’autorganizzazione è elemento della vita quotidiana delle persone. Ma qualcosa mancava ancora. Anche in questo 2019, l’8 marzo argentino è stato travolgente, cortei in ogni città e provincia. Il più grosso, e di dimensioni enormi quello di Buenos Aires. Qualche giorno dopo lo sciopero femminista e l’oceanica manifestazione dell’8 marzo, abbiamo incontrato Veronica Gago, docente universitaria e attivista del collettivo Ni Una Menos. È stata l’occasione per ripercorrere, a tappe forzate, l’insorgenza femminista nel paese sudamericano, e soprattutto capire come l’idea d’intersecare pratiche e lotte si sia materializzata nello sciopero trans/polinazionale femminista.

Com’è nata in Argentina Ni Una Menos?

Ni Una Menos nasce nel 2015 con un appello a una manifestazione contro i femminicidi e gli di abusi sessuali. Una serie di denunce amplificate dai social network, e realizzate da parte di ragazze molto giovani sono state il detonatore che si è materializzato in un primo appello da parte di un collettivo di giornaliste. Tutte noi siamo rimaste sorprese per le dimensioni raggiunte dall’appello. Il corteo che ne è seguito è stato davvero storico, nessuna sarebbe stata in grado di prevedere una tale partecipazione.

L’anno successivo, sempre per il 3 giugno, è stata organizzata un’altra manifestazione. Già in quella seconda occasione era cambiata la composizione del collettivo. Anche in questo caso la partecipazione fu molto elevata.

Due mesi dopo eravamo a un incontro nazionale di donne. Si tratta di un appuntamento annuale che esiste da 33 anni e che nel 2016 si è svolto a Rosario. Proprio durante quest’incontro siamo venute a sapere del femminicidio di una ragazza molto giovane avvenuto a Mar de Plata: Lucía Pérez. Il fatto ha suscitato un’ondata di indignazione sui social network. Dati l’ira e il dolore che ci aveva provocato la notizia, abbiamo lanciato un appello per andare oltre i social network e incontrarci faccia a faccia. Abbiamo organizzato un’assemblea qui a Buenos Aires nel quartiere Constitución, nello spazio della Confederazione dei lavoratori e lavoratrici dell’economia popolare. Qui nacque l’idea che, oltre a dire basta ai femminicidi, fosse necessario proporre altri strumenti di lotta per non rappresentarci più (o essere rappresentante) meramente come vittime di violenza. Dall’assemblea nasce l’idea dello sciopero. All’inizio sembrava delirante poter convocare uno sciopero in una settimana, ma l’abbiamo fatto, prendendo un po’ alla sprovvista i sindacati che non avevano ancora capito del tutto di cosa si trattasse. Ventidue paesi si sono sentiti coinvolti in questo moto di commozione e hanno aderito. L’appello ha dato risultati impressionanti, soprattutto rispetto al significato dato al movimento.

Lo sciopero femminista ha aperto un nuovo scenario politico, abbiamo iniziato a riflettere su come riconfigurare il movimento e gli strumenti tradizionali delle lotte operaie. Questo ci ha permesso di ripensare il lavoro a partire dal movimento femminista e la risposta è stata il primo sciopero internazionale delle donne.

L’appello è stato così forte che ci ha permesso di allontanarci dalla rappresentazione di vittime. Abbiamo smesso di essere relegate alla narrazione del vittimismo, quella su cui insistono i media, ma anche le dinamiche istituzionali.

La risposta alla violenza contro le donne implicherebbe la comprensione della vittima e la proposta di soluzioni istituzionali, di formule politiche che mirino a cambiare il discorso. Così può iniziare un vero e proprio lavoro di cura e non solo di diagnosi della violenza.

Cosa c’entra la violenza lavorativa con il fascismo, con il colonialismo, con la violenza istituzionale? Questa è al domanda da farsi. E dobbiamo ripartire dai territori per tessere questa diagnosi della violenza. Da qui è nata l’idea dello sciopero che ha assunto una dinamica molto particolare, alimentandosi sempre di più con una forza e una radicalità inaudite.

Come vi siete rapportate con i sindacati?

Quando sono iniziate le discussioni all’interno dei sindacati loro non accettavano che fosse un movimento composto da donne a dichiarare lo sciopero, uno sciopero serio. A questo punto sono state le compagne all’interno dei sindacati a portare avanti la lotta, evidenziando e problematizzando le dinamiche di potere che esistono nelle stesse strutture politiche. A poco a poco si sono costituite sempre più assemblee, anche internazionali, tra cui quella di Non Una Di Meno a novembre 2016. Il primo sciopero internazionale del marzo 2017 ha mostrato la capacità organizzativa del movimento e le sue modalità di lavoro. La prospettiva femminista permette di rileggere il ruolo della donna a livello lavorativo, non solo per valorizzare il lavoro domestico non pagato o quello migrante, ma anche il lavoro formale e sindacalizzato. Non si rivendica solo un riconoscimento dei settori di donne storicamente sfruttati, ma di applicare la prospettiva di genere a tutti gli ambiti professionali.

Dal 2017 allo sciopero del 2018 come Ni Una Menos abbiamo fatto un grosso lavoro politico di organizzazione per trasformare lo sciopero in processo politico e non in un semplice evento.

Nel sud del paese, in Patagonia, le compagne Mapuche subiscono forti discriminazioni e molte si ritrovano licenziate. Lo sciopero femminista è stato il primo sciopero della presidenza Macrí, tanto che uno dei motti era «La Cgt prende il tè, noi scendiamo in piazza», con l’intento dichiarato di stimolare la risposta sindacale.

Dal 2017 al 2018 siamo andate avanti a lavorare con l’obiettivo che lo sciopero servisse a costruire dinamiche di organizzazione e di condivisione delle lotte. In questo contesto, il femminismo permette di connettere forme diverse di conflittualità e diventa la cassa di risonanza di svariati conflitti territoriali. Interpretare ogni movimento e ogni lotta in chiave femminista dà una forza che altrimenti non avrebbero.

In questo modo forme di femminismo, già esistenti, come quello periferico, indigeno, comunitario o nero, assumono una dimensione più ampia. In alcuni quartieri di Buenos Aires il femminismo era sconosciuto o rifiutato, veniva accostato a un discorso istituzionale, accademico, ed elitario. Attraverso la pratica dello sciopero e nel percorso d’intersezione inizia a rappresentare un linguaggio a disposizione di tutte le comunità, tanto come meccanismo pratico che come strumento di orientamento delle forme di lotta. Lo sciopero dell’anno scorso ha permesso di approfondire ancor di più l’organizzazione a livello internazionale e durante tutto il 2018 sono state centrali le mobilitazioni per il diritto all’aborto. Chiaramente la dimensione moltitudinaria del conflitto sull’aborto non sarebbe spiegabile senza il tessuto organizzativo costruito dagli/negli scioperi precedenti.

Eravate un milione in strada a supportare la proposta di legge sull’aborto, il giorno prima che venisse presentata alla camera dei deputati.

È stato impressionante. Dal 13 giugno all’8 agosto del 2018 il livello di attivismo è stato altissimo. Ovunque c’erano assemblee, dibattiti o altre forme di organizzazione. Erano 13 anni che il progetto veniva presentato in parlamento, di fatto una trattativa storica portata avanti dalla “Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito”. Ma lo scorso anno, dentro il processo di crescita dell’organizzazione femminista, per la prima volta questa campagna ha esondato e acquistato non solo forza, ma anche un carattere di classe molto marcato: ci si inizia a interrogare su cosa significa esigere l’aborto gratuito. Chi sono quelle che pagano con la vita? Le più povere che ricorrono all’aborto nelle condizioni più insicure è la risposta. Queste rivendicazioni arrivano dalle compagne dei quartieri più popolari e delle periferie. È così che una proposta di legge, una questione burocratica, si è trasformata in dibattito pubblico. Dal congresso, nei mesi di discussione della legge, sono passate 800 persone a portare il proprio intervento. Interventi trasmessi online dappertutto, anche nelle scuole, varcando i confini dell’ambito parlamentare. Ciò ha contribuito a radicalizzare le generazioni più giovani, con un forte protagonismo di ragazze delle scuole medie.

Tutto questo restituisce la complessità del tema dell’autodeterminazione del corpo tramite una lettura dell’aborto non come semplice diritto individuale in termini liberali, ma di classe, secondo una percezione collettiva dei corpi vincolata alle varie conflittualità territoriali. Quando il senato ha rifiutato il progetto è stato un colpo davvero duro. La mobilitazione era stata così forte che la delusione non poteva non essere difficile da digerire. Il messaggio sembrava essere: «Non importa che manifestiate, non importa in quante scendete in piazza, continuiamo a comandare noi», come se si trattasse di una terribile vendetta del sistema politico. Nonostante la frustrazione, il disgusto e la depressione, ci siamo comunque chieste come andare avanti. Era stata la mobilitazione più grande mai costruita.

Come avete proseguito il lavoro di organizzazione e le campagne?

A ottobre dello scorso anno c’è stato un nuovo incontro internazionale, nel sud del paese, e si è deciso di rinominarlo “Incontro plurinazionale di donne lesbiche, trans e travestite” in cui le compagne delle organizzazioni indigene sono state le protagoniste. Quest’idea “plurinazionale” è stata la risposta più interessante e radicale contro i senatori che si considerano i “padri della patria”. Uno dei senatori, che ha bocciato la riforma di legge, ha osato difendere lo stupro nel caso avvenga all’interno di nuclei familiari, proprio mentre noi eravamo in piazza a manifestare. Stava difendendo la violenza privata come fosse un diritto pubblico. Posizione simile ad altri vecchi senatori provinciali, che si sono dimostrati i più conservatori e reazionari.

Per tutte queste ragioni lo sciopero dell’8 marzo 2019 si è titolato “Sciopero internazionale, plurinazionale, femminista di donne, lesbiche, trans e travestite”. La denominazione stessa dello sciopero evolve con la sua capacità di includere nuove forme di conflitto. Quest’anno è stato molto difficile organizzare lo sciopero per via delle tensioni elettorali. Le nostre assemblee sono diventate appuntamenti di massa molto partecipati e la possibilità di prendere parola durante le assemblee è diventata molto appetitosa per fini elettorali. Le regole dell’assemblea e i nostri sforzi di orizzontalità e trasversalità, che avevano come scopo dare spazio ai settori popolari, sono stati compromessi dai dibattiti elettorali. Anche in Spagna è accaduto qualcosa di simile, con alcuni partiti che hanno cercato di appropriarsi a modo loro della legittimità politica del femminismo. Un altro punto molto presente sono state le discussioni delle radfem, che non sapevamo nemmeno cosa fossero fino a poco mesi fa, e che portano avanti un discorso biologista. Volevano trasformare lo sciopero in uno sciopero esclusivamente composto da donne e non da trans o travestite. In reazione è stato organizzato uno spezzone antifascista contro la postura biologista.

A questo punto resta la domanda: Come andiamo avanti? Lo sciopero si reinventa ogni anno, ma rimane la domanda di come proseguire per approfondire la dinamica internazionalista.

In Italia, ma anche qui in Argentina, la lotta femminista è legata aquella contro il patriarcato e il capitalismo. Per te come si relazionano queste tre dimensioni? Alcuni sostengono che il patriarcato non è la stessa cosa del capitalismo. Che ne pensi?

Il triangolo di analisi è composto da capitalismo, patriarcato e colonialismo. Questi fattori sono stati portati dalle lotte stesse. Lo sciopero ha portato il tema del lavoro: cosa chiamiamo lavoro? Che forma di sfruttamento e di estrazione di valore viviamo? Questo apre una riflessione sul lavoro domestico non solo quello casalingo ma anche quello riproduttivo inteso come lavoro sociale: le compagne dell’economia popolare che lavorano nelle mense, nelle scuole dell’infanzia, che fanno le pulizie, ma anche le ostetriche che accompagnano gli aborti. Come può essere riconosciuto questo lavoro? Come si può fornire una lettura analitica a partire dall’insubordinazione? A chi fa comodo che questi lavori non vengano riconosciuti e non siano retribuiti? Lo sciopero ci ha permesso di elaborare una mappatura pratica. L’archivio femminista esistente è ampio, ma in alcuni momenti storici le lotte assumono una dimensione di massa, questa è la particolarità dell’oggi in Argentina dove il femminismo è entrato a far parte della discussione quotidiana.

In materia di lavoro, il tema saliente è quello dello sfruttamento del capitalismo che va affrontato senza scinderlo dalle forme specifiche di sottomissione del patriarcato. La potenza dello sciopero femminista risiede proprio nella chiave di interpretazione condivisa che permette di concepire che le forme di sfruttamento non esistono senza una specifica subordinazione patriarcale. Quest’ultima ha a che vedere con le gerarchie sul posto di lavoro ma anche con il disprezzo storico nei confronti dei ruoli riproduttivi e come il tutto si riproduce dentro le strutture politiche, anche di sinistra.

Parlavi poi della questione coloniale…

Le compagne “originarie”, soprattutto in America Latina, che fanno parte delle lotte contro i megaprogetti estrattivi, ci hanno spinto a porre al centro del ragionamento questa dimensione. Le forme di sfruttamento coloniale sono legate alla “riprimarizzazione” dell’economia e allo sfollamento di intere comunità e di fatto c’è una sorta di  attualizzazione della questione coloniale. Non solo nei territori contadini o indigeni ma dinamiche di tipo coloniale avvengono anche nelle periferie e nelle aree suburbane. Nel nome del progresso e dell’estrazione di ricchezza si ritiene strategicocacciare intere comunità, o trasformare il loro territorio e quindi la stessa storia sociale. Detto in altri termini, le compagne dei quartieri popolari fanno notare che le forme di sfruttamento e di indebitamento non sono uguali, è diverso come si indebita una persona delle classi povere, uno studente negli Stati uniti o chi fa parte della classe media, perché non tutti sono obbligati a comprare a rate prodotti per esempio, o il peso degli interessi grava in maniera differente.

Su questi vertici si sviluppa il quadro di analisi triangolare composto da patriarcato, capitalismo e colonialismo. Un esempio è dato dalle compagne Mapuche che raccontano di essere figlie di generazioni che hanno dovuto abbandonare il territorio d’origine, figlie di madri che sono dovute andare in città, a Bariloche ad esempio, a lavorare come domestiche. E loro figlie di madri che lavorano come domestiche a cui non è stata insegnata la lingua originale, per paura che avrebbero potuto avere difficoltà a scuola, stanno pensando di tornare nei propri territori d’origine. Parliamo di una nuova generazione che vuole tornare nei territori d’origine una dinamica completamente diversa e nuova che mette in moto nuovi ragionamenti sul colonialismo.

Credi ci sia qualche rapporto tra la storia recente dell’Argentina, l’economia popolare, la solidarietà di base e il femminismo?

Sì. Tutta l’economia popolare è impensabile e incomprensibile senza conoscere la crisi del 2001 e l’irruzione massiccia dei movimenti sociali che pongono la questione del lavoro, dell’esclusione, dell’inclusione, e le forme di negoziazione con lo stato. È stata una grande esperienza di autogestione e di lavoro senza padroni auto-organizzato dentro i diversi gruppi dell’economia popolare. Nell’origine e nella genealogia politica dell’economia popolare è presente la capacità dei movimenti sociali di attraversare la crisi. Come far sì che le economie popolari non vengano interpretate esclusivamente come economie di poveri e miserabili o di affrontare la povertà in senso caritatevole è uno degli elementi di tensione e dibattito permanente. Come permanenti sono le questioni aperte sulla costruzione di dispositivi di governance territoriale o elementi di sovversione delle gerarchie interne nelle organizzazioni. È una battaglia permanente, e qui l’influenza della Chiesa cattolica è molto forte. Dove investire i fondi, che temi trattare e quali no, e soprattutto nella definizione di qual è il lavoro sociale che le economie popolari devono svolgere.

Con l’elezione di Macrí l’Argentina torna a essere un laboratorio per le politiche neoliberiste?

Con lui torna il neoliberismo nella sua accezione più pura e radicale. Ma oggi il laboratorio è più il Brasile che l’Argentina. Il discorso di Macrí è antiquato persino per la destra stessa. Tanto che potremmo dire che oggi vediamo una sorta di “bolsonarizzazione” di parti del mondo “macrista”. Si è cercato di presentare il caso argentino come forma di neoliberismo proficuo mentre in Brasile si portava avanti il colpo di stato contro Dilma Rousseff o rispetto alle situazione di altri paesi della zona. Lo spostamento a destra è stato legittimato dal voto democratico, l’Argentina ha cercato di mostrarsi come il luogo più proficuo per il ritorno del neoliberismo ma credo che oggi ci sia un acuirsi dell’esperimento neoliberale soprattutto in Brasile.

Tu o il movimento Ni Una Menos avete qualche speranza per le prossime elezioni?

Il consenso all’interno del movimento è che bisogna mandare via Macrí, su questo siamo tutte e todes d’accordo. Non sarà facile, perché questo governo ha mostrato astuzia nella gestione delle politiche sociali e nelle negoziazioni con le organizzazioni dell’economia popolare. Sono stati capaci di canalizzare e gestire l’effetto della crisi. Il ministro dell’economia l’anno scorso, subito dopo che avevano chiuso tredici ministeri per implementare tagli e misure di austerità, ha detto una frase che mi è rimasta impressa: «Se qualsiasi altro governo della storia dell’Argentina avesse presentato questo piano economico, la gente sarebbe scesa in piazza e l’avrebbe ribaltato. Noi abbiamo potuto farlo». Il cinismo con cui affermano la propria legittimità politica e con cui governano, con il supporto di forze politiche, apre dubbi sulla possibilità di sconfiggere il governo. Tutte e todes speriamo di sì. L’obiettivo comune è mandare via Macrí. Entriamo in un anno difficile, crisi economica e inflazione sono al culmine.

Stiamo pubblicando un libro sulle forme di finanziarizzazione della vita quotidiana e la nostra ricerca analizza come privatamente e individualmente si risolva, ad alto prezzo, la crisi alimentare e della salute, e di tutti i servizi che dovrebbero essere teoricamente pubblici. In un’altra epoca tali mancanze avrebbero provocato proteste, organizzazione collettiva e mobilitazioni, diciamo altre forme d’uscita dalla crisi oggi, invece, c’è una capillarità del dispositivo finanziario che sta producendo realmente un nuovo tipo di governo del territorio. In questo il “macrismo” è molto abile.

L’Argentina può essere considerata un laboratorio.

Esattamente. Ultimamente la gente si chiede perché non esploda tutto. Osserviamo invece un’implosione verso l’interno che si manifesta sotto forma di violenza domestica, nei territori, come nel razzismo. Verso l’esterno invece tutto è contenuto, con l’eccezione di alcune lotte storiche. Attualmente l’unico movimento che sta producendo una analisi non reazionaria e non fascista della crisi è il movimento femminista che è capace di affrontare molti temi: l’aborto, il lavoro, la finanza, le crisi territoriali…

Anche contro il G20 è stato l’unico capace di costruire mobilitazione?

C’è stato un Forum Femminista contro il G20 e c’è stata anche una mobilitazione in risposta all’anticipazione del G20, il Women20, l’incontro delle imprenditrici. Per noi non è stato un caso che nel paese conosciuto in tutto il mondo per il movimento femminista venissero le imprenditrici a dire: «Femminismo? Sì, tutte possiamo essere manager». Si è trattato di un tentativo di appropriazione neoliberista dell’agenda del movimento.

*Andrea Cegna, dopo anni a Radio Lupo Solitario come responsabile della programmazione musicale arriva a Radio Popolare e poi a Radio Onda d’Urto. Giornalista senza tessera, curioso, contro il decoro e attento alle dinamiche latinoamericane.

Sorgente: La triangolazione tra capitalismo, patriarcato e colonialismo – Jacobin Italia

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