La festa senza il lavoro | Rep
Il primo maggio rischia di diventare un rituale fuori dal tempo con i nuovi sfruttati, le tutele spezzate e il caporalato digitale. Necessario un altro sindacato: unitariodi GAD LERNER
Cosa c’è da festeggiare il Primo Maggio se il lavoro, ogni anno che passa, vale meno? A mezzo secolo di distanza dalle lotte operaie sfociate nell’autunno caldo del 1969, che avviarono un decennio di conquiste sociali e cospicua redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente, gli sfruttati di oggi vietano a se stessi perfino la nostalgia; non parliamo della fede in una prossima riscossa proletaria. Così, a furia di sentirsi dire che la lotta di classe è solo un nocivo ferrovecchio del passato, il 1° maggio 2019 in Italia rischia di trasformarsi in un anacronismo: la festa del lavoro che non c’è più.
Ci sono la fatica e lo stress, ci sono gli orari spezzati, il ritorno del cottimo, le esternalizzazioni di rami d’azienda, i somministrati a termine, il caporalato digitale, il tariffario dei parasubordinati, il welfare aziendale differenziato, le false cooperative multiservizi con gare al massimo ribasso per l’assegnazione di appalti e subappalti. Ma è come se in frantumi fosse andata l’idea stessa di LAVORO come tutt’uno, principio ordinatore della società. Nel quale lavoro ciascuno possa rispecchiarsi e accomunarsi, considerandolo l’abito che indossa ogni mattina, l’esperienza fondamentale della propria vita fuori dall’ambito domestico.
Anacronistico, cioè fuori dal tempo, è il rituale di questo Primo Maggio che da parecchi anni nelle piazze delle principali città italiane si è già sdoppiato: da una parte il corteo ufficiale dei confederali Cgil-Cisl-Uil, dall’altra le innumerevoli sigle del precariato. Si sono scissi perfino i “concertoni”, fra Roma e Taranto.
Da una parte tre apparati sindacali sopravvissuti all’estinzione dei partiti politici cui facevano riferimento, nati da una scissione della Cgil unitaria che risale agli anni lontani della Guerra fredda. E davvero non si capisce cosa impedisca loro di riunificarsi, se non convenienze di perpetuazione dei loro gruppi dirigenti.Dall’altra il tentativo, spesso velleitario, di dare rappresentanza nel pubblico impiego, nella logistica, nell’agroalimentare a una Babele di lavoratori che si sentono dispersi e sospinti alla marginalità delle tutele decrescenti.
Da entrambe le parti cominciano a emergere figure di leader la cui biografia sembra indicare un ritorno di attenzione alla centralità del lavoro, troppo a lungo retrocesso nei suoi diritti e nella sua remunerazione. Alla guida della Cgil è giunto l’ex metalmeccanico Maurizio Landini; sull’altro fronte emerge per rilevanza mediatica il sindacalista autonomo Aboubakar Soumahoro, divenuto portavoce della protesta dei lavoratori immigrati.
Non si parlano tra di loro, ma ambedue segnalano l’esistenza di un vuoto da riempire: cioè di una rappresentanza unitaria del mondo del lavoro che torni nelle mani di chi davvero ha compiuto dal basso un tragitto di emancipazione nella lotta e di acculturazione, come accadeva agli albori del movimento sindacale italiano. Non a caso fondato da personalità come Bruno Buozzi, Achille Grandi, Giuseppe Di Vittorio che avevano in comune non solo le umili origini ma l’aver vissuto la piaga del lavoro minorile (un meccanico, un tipografo, un bracciante).
Dirigenti sindacali che sanno quello che dicono quando adoperano una parola caduta in disuso come “sfruttamento”. Ma che devono fare i conti con la sempre più diffusa riduzione delle vicissitudini del lavoro a faccenda privata, da non condividersi ma anzi semmai da tenere nascosta. Oggi risulta normale in tutti gli ambiti lavorativi che vi siano addetti con inquadramento contrattuale diversificato, con orari, tutele e retribuzioni molto distanti fra loro, anche se svolgono le stesse mansioni.
È ingiusto? Ma è così. Meno ovvio è scoprire che di fronte a un sopruso o addirittura a un licenziamento la maggioranza dei lavoratori preferisca nasconderlo; non necessariamente perché si sentano vulnerabili e ricattati, ma spesso per ragioni di status: se vieni cacciato o degradato, preferisci che gli amici e i vicini di casa non lo sappiano. Il lavoro come fonte di umiliazione anziché di riscatto.
La varietà delle forme in cui si esercita, nel formale rispetto delle normative di legge, la precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia (tralasciando le piaghe del sommerso e del caporalato servile) è pari solo alla fantasia dei commercialisti che orientano le imprese a escogitare nuovi assetti societari ed escamotages contrattuali. Quasi sempre la politica ha assecondato tali “semplificazioni” nella speranza che rimuovere limiti d’orario e facilitare collaborazioni episodiche incrementasse l’occupazione e favorisse la crescita economica.
Non abbiamo la controprova di politiche meno flessibili (magari sarebbe andata peggio), ma di certo siamo rimasti senza incrementi di occupazione e senza crescita. In compenso abbiamo vissuto un drastico calo del valore del lavoro in Italia, più accentuato che nel resto del mondo occidentale.
Nell’ordine, dunque, il 1 maggio 2019 si segnala per: espansione dell’area del lavoro povero, ovvero retribuito sotto una soglia ragionevole di sussistenza; diffusione parallela del part-time forzato, cioè orari ridotti con proporzionale riduzione dei compensi (un milione di sottoccupati dichiara che sarebbe disponibile a lavorare 19 ore di più a settimana); boom degli occupati sovraistruiti, 5 milioni e 569 mila dipendenti che hanno un titolo di studio superiore a quello che sarebbe necessario per svolgere le loro mansioni (il 25% del totale).La (presunta) ineluttabilità di questa marcia indietro, un vero e proprio ControPrimoMaggio strutturale, si esprime nella forma del teorema che Carlo Cottarelli ha sintetizzato con la consueta chiarezza: «Più lavoratori ci sono rispetto al capitale, più il lavoro costa meno». A prima vista sembrerebbe un dogma indiscutibile, il frutto avvelenato della globalizzazione. Spiegherebbe anche il successo del nazionalismo economico che illude i lavoratori con la scorciatoia del “prima i nostri”, e pazienza se gli altri ci rimettono. Un’illusione già più volte smentita dalla storia, ma che dal punto di vista dei sovranisti conserva il pregio di supportare la retorica interclassista della Grande Proletaria (Giovanni Pascoli, 1911) che declinata al giorno d’oggi recita più o meno così: «Noi italiani siamo tutti quanti popolo-vittima di perfide potenze straniere che mirano a depredarci; dunque sindacati e lavoratori si adeguino al superiore interesse nazionale».
Il Primo Maggio per sua natura è internazionalista, riunisce proletari di tutte le origini, ha dentro di sé gli anticorpi che lo immunizzano dalla menzogna “sangue e suolo” della Grande Proletaria. Ma proprio questo è l’ultimo anacronismo, quello che più di ieri rende faticoso riconoscersi fra proletari.
Proletario era colui che non possedeva altri beni oltre ai propri figli. E ne generava parecchi, di figli, perché calcolava che una parte se li sarebbe portati via la mortalità infantile e la guerra, mentre lui solo dalle loro braccia avrebbe potuto ottenere sostegno in vecchiaia.
Oggi in Italia chi non possiede altro che il proprio lavoro, di figli non ne genera più, e quei pochi che ha generato spesso deve mantenerli anche da adulti. Il proletario senza prole viene così attanagliato dalla paura che lo Stato non sia più in grado di pagare le prestazioni sociali a sostegno della sua vecchiaia.
Stiamo diventando un Paese di proletari senza prole. Sempre più spesso, di proletari senza sapere di esserlo, come succede anche a tanti giornalisti pagati venti euro ad articolo.
Ha fatto scalpore, nei giorni scorsi, che i fattorini di Deliverance Milano abbiano pubblicato una lista di personaggi famosi renitenti alla mancia facoltativa, ma soprattutto che abbiano minacciato di divulgarne gli indirizzi privati. Una palese scorrettezza che serviva a mettere a nudo la vulnerabilità delle piattaforme di AssoDelivery da cui i rider reclamano maggiori tutele. Cominciava così, cinquant’anni fa, con sabotaggi illegali, anche la rivolta dell’operaio-massa che bloccava a scacchiera (“gatto selvaggio”) le catene di montaggio della Fiat Mirafiori. Peccato che un solo reparto di quella città-fabbrica contasse più operai di quanti non siano tutti i rider attivi oggi sull’intero territorio nazionale.
Unire i proletari è diventato più difficile, anche il Primo Maggio. Ma da una loro ulteriore retrocessione — altro che sabotaggio delle mance! — non c’è da aspettarsi niente di buono. Nuova unità sindacale cercasi.
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