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Pechino dice basta ai milioni di tonnellate di scarti dall’estero. Panico tra i paesi avanzati, che hanno dirottato le navi con pattume spostando l’emergenza ambientale e sanitaria a poca distanza

La discarica globale ha chiuso i cancelli e fa entrare pochissimo rispetto ai bei (e maleodoranti) tempi andati. A quei cancelli chiusi ci ha sbattuto il muso l’Occidente, fino a quel momento abituato alla grande, secondo il comodo principio “pago, neanche tanto, e mi pulisco sia la coscienza sia l’ambiente di casa mia”. E’ inutile suonare qui non vi aprirà nessuno, dicono i dirigenti cinesi. Lo dicono dalla metà del 2017. Un annuncio dato all’improvviso, durante una riunione del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio: “per proteggere l’ambiente e i nostri cittadini non accettiamo più rifiuti generici di plastica, carta e altri rottami”. Ora sono accettati solo alcuni particolari tipi di residui, di maggior qualità e con più facile separabilità degli elementi costitutivi ai fini del riciclo.

Una dichiarazione che ha avuto l’effetto di uno shock per decine di paesi ricchi, consci che quello che annunciano i diplomatici cinesi equivale sempre a un dato di fatto già acquisito. E infatti lo scenario è immediatamente cambiato. Fino al luglio 2017 la Cina si poteva davvero considerare la grande pattumiera del mondo, visto che vi confluiva il 56% degli scarti di plastica prodotti dall’Alaska alla Nuova Zelanda. Al massimo, a voler edulcorare il quadro, come facevano i leader del G8 e molti del G20 – ambientalisti in casa propria, un po’ meno se il problema rifiuti riguardava l’Estremo Oriente – la Cina poteva essere definita il Grande Riciclatore. Che però, nel tentativo di riciclare, spesso usava semplici inceneritori, avvelenando così i suoi cittadini.

Nel 2017, i big-four dello smistamento alla Cina di plastiche da buttare erano gli Usa , con circa un milione di tonnellate. Le reginette del trash, a seguire ad ampia distanza dagli Stati Uniti, erano, nell’ordine, Giappone, Germania e Corea del Sud. E poi Messico e Canada, che inviavano tra le 150 mila e le 250 mila tonnellate. Da notare che, a livello europeo, dietro la Germania, si posizionavano Regno Unito e Spagna, non la Francia né l’Italia). Sono dati del database Comtrade dell’Onu.

Dal dicembre 2017 tutto è cambiato e quella rotta ha subito un forte calo . Solo l’Unione Europea, che nel 2016 spediva destinazione Cina 300 mila tonnellate, ha visto scendere la plastica inviata a 190 mila tonnellate ad aprile 2018, cioè a soli 4 mesi dall’avvio della restrizione imposta da Pechino (sono gli ultimi dati Eurostat Comext disponibili). Come diretta conseguenza c’è stata l’impennata di plastiche inviate altrove. “Premiato” il Sud-Est asiatico. Nei due anni della stretta cinese, India, Thailandia, Indonesia, Vietnam e soprattutto Malesia, hanno triplicato l’import di residui plastici esteri. E stanno esponendo la propria popolazione a un violento innalzamento dei fumi tossici e dell’inquinamento dei fiumi e laghi.

Il paradosso è che nella cintura sud-asiatica si registra un boom di discariche illegali, e inceneritori “selvaggi” gestiti proprio dai cinesi che controllavano i siti in patria e che ora non possono più accettare il materiale dall’estero. In Malesia pesanti le conseguenze a livello sanitario, con l’aumento delle malattie respiratorie. Insomma, il blocco cinese ha confermato ancora una volta che lo smaltimento eco-sostenibile dei rifiuti è, non solo una voce fondamentale del controllo dei gas-serra, ma una priorità assoluta di tutti i paesi: per non spostare le emergenze sanitarie e ambientali di casella in casella, come un tragico risiko, la soluzione deve essere tecnologica e interna a ogni paese.

Fonte: Deutsche Welle

Questo articolo è stato realizzato da quoted business

Sorgente: La Cina non vuole i rifiuti altrui. E i Re del trash (tra cui Usa e Ue) vanno in tilt – La Stampa

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