
Martedì in Israele si vota e durante la campagna elettorale quel tema apparentemente così fondamentale, è stato affrontato marginalmente
Quando si pensa a Israele, ai più viene fatalmente in mente la questione palestinese: come risolvere un problema e un’ingiustizia; una pace per il più lungo conflitto della storia contemporanea; l’inizio per Israele di una vita normale e di un sogno compiuto: solo quando esisterà uno Stato palestinese, quello ebraico avrà frontiere certe e porterà a compimento l’impresa sionista. E i palestinesi avranno giustizia.
Chi la pensa così –me compreso – è fuori dal tempo. Martedì in Israele si vota e durante la campagna elettorale quel tema apparentemente così fondamentale, è stato affrontato marginalmente. Il dibattito politico interno, le posizioni sempre più tribali e nazional-religiose della maggioranza di destra israeliana, i catastrofici errori dei vertici palestinesi, l’instabilità regionale alle frontiere (gli iraniani alle soglie del Golan), hanno creato una situazione strana: sostenere la soluzione dei due Stati in pace e sicurezza l’uno accanto all’altro, è come essere nemici d’Israele. Nonostante questo continui a essere un principio guida di europei, russi e della diplomazia internazionale: perfino ancora per gli Stati Uniti.
Lotta all’ultimo voto tra Netanyahu e Gantz in Israele
Benni Ganz, ex parà, ex eroe di guerra, ex capo di stato maggiore delle forze armate, in queste elezioni rappresenta il tentativo di coniugare sicurezza e pace. Ancora una volta l’unico oppositore credibile a Netanyahu e al Likud, è l’ennesimo tentativo di clone di Yitzhak Rabin. Ganz non è il leader del partito laburista, ormai quasi insignificante, ma di una nuova forza politica moderata un po’ più di centro-destra che di centro-sinistra: Kahol Lavan, blu e bianco, cioè i colori della bandiera d’Israele.
È stato con grande cautela che Ganz si è avvicinato alla questione palestinese. La parola che lui e un’associazione di ex generali ed ex capi delle intelligence usano è “separazione”: un concetto più negativo che positivo ma con l’aria che tira va bene ugualmente. Qualche giorno fa Ganz è stato un po’ più articolato, sebbene ancora molto cauto: «Solo con nuove leadership nei due campi (Israele e Autorità Palestinese, n.d.r.) possiamo tentare di andare avanti». E ancora: «Bisogna preservare un orizzonte per un accordo futuro».
Ma a stabilire definitivamente che noi sostenitori della soluzione dei due stati siamo fuori dalla realtà, è soprattutto un sondaggio condotto da Ha’aretz. Sotto questo aspetto Ha’aretz è un giornale al di sopra di ogni sospetto: è di centro-sinistra e sostiene la nostra soluzione. Bene, secondo questo sondaggio il 42% degli israeliani è favorevole all’annessione della Cisgiordania. E solo il 28% continua a essere senza tentennamenti per i due Stati.
Non stupisce che l’annessione sia sostenuta dal Likud il quale da tempo ha abbandonato posizioni moderate; che lo dicano Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked che vuole piegare la Corte suprema al servizio della politica; che lo gridi Moshe Feiglin, il quale vuole ricostruire il Terzo Tempio ebraico sulla Spianata delle moschee.
Ma all’annessione è favorevole una parte di Kahol Lavan, del Labour, della sinistra di Meretz e perfino molti arabi israeliani. Dire annessione non è così semplice: il sondaggio di Ha’aretz divide chi vuole l’annessione completa della Cisgiordania senza alcun diritto per gli oltre tre milioni di palestinesi che ci vivono; chi la vuole, dando invece pieni diritti agli arabi; e chi propone solo d’integrare l’area C. Gli accordi di Oslo sull’autonomia palestinese avevano diviso i territori occupati in tre categorie amministrative: una sotto il pieno controllo dell’Autorità palestinese, una ad amministrazione condivisa, una terza – l’area C – esclusivamente sotto giurisdizione israeliana: è il 61% della Cisgiorania, c’è il maggior numero di colonie ebraiche e, solo per la cronaca, ci vivono oltre 300mila palestinesi.
Se escludiamo il 28% d’israeliani che continua coraggiosamente a credere senza compromessi ai due Stati, e un’altra percentuale incapace di dare una risposta ai sondaggi, quello che politicamente conta è che una maggioranza relativa ma solida voglia una forma di annessione. È questo lo sfondo del voto di martedì.
Veterano di mille campagne, Bibi Netanyahu sta mettendo in campo tutto il suo armamentario di prestigiatore politico: comprese l’enfatizzazione di pericoli inesistenti, le insinuazioni e le false notizie dell’arcipelago dei social reazionari.A pochi giorni dal voto Bibi è andato a Washington per una foto con Donald Trump, ha ospitato Jair Bolsonaro che ha detto due o tre scemenze sul nazismo, ed è volato da Vladimir Putin: un quartetto unito dal nazionalismo, dall’etno-centrismo e dall’anti-europeismo. Nel blitz a Mosca conta anche il voto della comunità russa in Israele: un milione di persone, 18 seggi sui 120 della Knesset, scarsi quanto a democrazia e grandi sostenitori di Putin. Ma questo sodalizio internazionale rivela quello che si vedeva da tempo: la progressiva modifica del profilo democratico di Israele.
Forse martedì Benny Ganz conquisterà qualche seggio più del Likud, conquistando il diritto di cercare per primo una coalizione e una maggioranza parlamentare. Questa è l’eventualità più ottimistica, oggi. A scalare, segue la probabilità che Ganz non trovi una maggioranza di centro-sinistra e che ci riesca Bibi a destra (i sondaggi gli sono favorevoli 67 a 53 seggi), formando di nuovo una maggioranza di estremisti, pletorica e rissosa. Israele diventerebbe ancora più etno-centrico, gli arabi israeliani sempre più cittadini di seconda e terza classe, i palestinesi ancor più prigionieri nelle loro città assediate da colonie e posti di blocco. E finalmente il nuovo governo abbatterà l’ultimo tabù rimasto di fronte alla diplomazia internazionale: costruire nuove colonie, non solo espandere le esistenti.
Nel sistema proporzionale israeliano c’è sempre l’ipotesi che per evitare questo scenario che isolerebbe Israele, e scavalcare le ambizioni delle destre nazional-religiose, Bibi proponga un governo con Ganz. Ma l’ultimo serio ostacolo che potrebbe impedirgli di restare in carica, è la giustizia. Il procuratore generale Avichai Mendelblit lo ha incriminato per tre casi di corruzione. Fra qualche mese procederà. Oltre a diventare il premier più longevo d’Israele, perfino più di David Ben Gurion, Bibi potrebbe raggiungere un altro record: essere il primo capo di governo in carica ad andare sotto processo.
Sorgente: Elezioni in Israele, ma chi pensa ancora alla questione palestinese? – Il Sole 24 ORE