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Dalla Guerra dei cent’anni alle code infinite di turisti: un monumento simbolo della Francia e dell’Europa intera

Alberto Mattioli
inviato a parigi

Notre-Dame è, o forse con dolore si deve dire era, uno di quei monumenti così celebri che ognuno di noi, anche chi non c’è mai entrato, ne ha un’immagine, un ricordo, magari soltanto un flash.

Per chi ha memoria storica, c’è solo l’imbarazzo della scelta. In pochi posti del mondo, in effetti, di storia se n’è fatta tanta: visite papali e incitamenti alla crociata, guerre e rivoluzioni, l’incoronazione a re di Francia di quello d’Inghilterra Enrico VI nel momento peggiore della guerra dei cent’anni (i re di Francia, quelli veri, si facevano consacrare a Reims) e il processo di riabilitazione di Giovanna d’Arco, il matrimonio di Maria Stuarda e la Dea Ragione, una ballerina, portata in trionfo sull’ex altar maggiore durante la Rivoluzione. E poi: l’autoincoronazione di Napoleone e il «Te Deum» celebrato dopo la Liberazione davanti al général De Gaulle, che aveva risalito a piedi gli Champs-Élysées, incurante che qualche cecchino tedesco sparasse ancora, mentre suonavano le campane mute dal 1940.

Per i turisti, per chiunque sia stato uno di quei 13 milioni di visitatori che ci entrano ogni anno dopo code e controlli, Notre-Dame è un’icona di Parigi, un profilo familiare che poi, visto dal vivo, risulta quasi deludente (in effetti, è come il Duomo di Milano o le stoffe inglesi: meglio da dietro); per chi a Parigi cerca ancora il romanticismo, una massa grigia che incombe su una Senna in bianco e nero, come in una foto di Doisneau, o che sorge dalla Senna mentre fai il giro in battello.

Per i fedeli, è la madre delle chiese di Parigi, il prodotto di nove secoli di cattolicesimo iniziati nel lontanissimo 1163, la fede fatta pietra della «figlia prediletta della Chiesa», quella Francia oggi maggioritariamente atea, o agnostica, ma le cui radici sono lì, e capace sempre di ravvivare una religiosità stanca con figure eccezionali, come l’ex «proprietario» di Notre-Dame, il cardinale Lustiger arcivescovo di Parigi, ebreo convertito, accademico di Francia, capace di dialogare anche con i laici. Che infatti affollavano le sue omelie.

Per gli appassionati delle arti, è lo scenario di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, la cui pubblicazione, nel 1831, fu decisiva per «lanciare» i grandi restauri ottocenteschi e appassionare la pubblica opinione al gotico, già considerato «barbaro». Infatti sotto Napoleone I la chiesa era così malridotta che per nasconderlo si appesero alle pareti le bandiere prese al nemico ad Austerlitz. E ancora: quelle navate, coperte da una folla di dignitari, marescialli, falsi principi e veri cardinali, sono lo sfondo del Sacre di David, o l’eco della voce di Edit Piaf che canta, appunto, Notre-Dame de Paris. E pazienza se l’edificio attuale è un pasticcio, un finto gotico o meglio l’idea che del gotico avevano i romantici in generale e in particolare Viollet-le-Duc, il grande restauratore (o ricostruttore). È passato tanto tempo che quel finto gotico è diventato vero. Come sarà vera la nuova Notre-Dame, quella che nascerà dai restauri dopo questa tragedia. Sarà un’altra cosa, ma sarà ancora e sempre Notre-Dame.

Questo è il destino delle icone: parlare a tutti, e a ognuno dire qualcosa di diverso. «Come tutti i nostri compatrioti, stasera sono triste di veder bruciare questa parte di noi», twitta Emmanuel Macron. Però, come diceva Thomas Jefferson, ambasciatore americano a Parigi in epoche più propizie alla grandeur, «ogni uomo ha due patrie, la sua e la Francia». I francesi si possono anche detestare, ma non si può negare che questo sia vero. Parigi resta una delle poche città «globali». Non è più, e da tempo, una delle capitali politiche del mondo. Ma resta una capitale della bellezza, della cultura, del sogno. Per questo veder bruciare Notre-Dame è un incubo per tutti, non solo per i francesi.

Al solito, la catastrofe si consuma in diretta tivù, mentre le fiamme si alzano sempre di più nel cielo che si scurisce. È un’angoscia vedere il tetto che crolla, la flèche, la guglia di legno alta 45 metri e pesante 750 tonnellate (un altro vero falso della cattedrale, peraltro: risale al 1860) non svettare più sui tetti di Parigi. Ricostruiranno, restaureranno. Perché nonostante queste fiamme, ne siamo sicuri, Notre-Dame non era, è. Parigi, cantava Maurice Chevalier, sarà sempre Parigi: e Parigi, e la Francia, e l’Europa, e quello che siamo, senza Notre-Dame non è nemmeno immaginabile.

Sorgente: Da Victor Hugo al général De Gaulle, la culla di fede dove si è fatta la storia – La Stampa

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