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Il New York Times: “Un porto italiano può essere la via di accesso dei cinesi”. Fu già Obama ad aprire le ostilità

di Federico Rampini

“Un porto italiano dimenticato, può diventare la via d’accesso della Cina all’Europa”. Il titolone campeggia su un’intera pagina d’inchiesta che il New York Times dedica a Trieste, alla vigilia dell’arrivo in Italia di Xi Jinping. “Una Cina in ascesa – si legge sul quotidiano – apre un varco in quell’alleanza economica che dominò il mondo, e sferra un colpo all’Amministrazione Trump che ha criticato la Belt and Road Initiative (B&R)”.

In realtà è Barack Obama ad avere aperto le ostilità contro quella che all’epoca veniva chiamata la Nuova Via della Seta. Su questo c’è continuità bipartisan a Washington. L’offensiva più recente l’ha lanciata John Bolton, stratega della sicurezza nazionale alla Casa Bianca, che al suo portavoce ha fatto definire l’intesa Cina-Italia come un “approccio da predatori, senza vantaggi per il popolo italiano”.

Obama non la pensava molto diversamente. Dietro il gigantesco piano d’investimenti in infrastrutture, anche il presidente democratico vedeva una volontà egemonica della Cina, che dal commercio e dalla finanza inevitabilmente si dilata alle sfere politica e militare. Fu Obama a prendere una decisione netta e ostile, rifiutandosi di entrare nella nuova banca asiatica per gli investimenti in infrastrutture (Aiib) creata a Pechino. Vide in quella nuova istituzione una chiara sfida all’architettura nata nel 1944 a Bretton Woods per volere di Franklin Roosevelt, imperniata su Fondo monetario e Banca mondiale. Obama denunciava la poca trasparenza degli investimenti e dei prestiti cinesi; l’assenza di regole sulla sostenibilità ambientale, sul trattamento dei lavoratori, sui diritti umani. Una parte di quelle preoccupazioni si sono rivelate fondate. Disseminando opere pubbliche in Asia, Africa, Balcani, la Cina esporta debiti. L’improvvisa crisi del Pakistan è un caso da manuale: il Fmi ignorava che fosse sull’orlo della bancarotta, perché i debiti bilaterali con la Cina non vengono dichiarati né sottoposti alla vigilanza delle istituzioni internazionali. Paradossalmente la pressione di Obama ha “migliorato” l’Aiib, che oggi è più trasparente. Molti investimenti cinesi all’estero però vengono finanziati da altre banche di Pechino e restano nell’opacità. In quanto a standard ambientali e diritti umani, con l’espansione delle infrastrutture made in China i primi casi di proteste e resistenze popolari si sono già avverati: dal sud-est asiatico all’Africa (Malaysia, Vietnam, Zambia).

L’altra preoccupazione di Obama – il condizionamento politico che accompagna gli investimenti cinesi – si è materializzata perfino sul territorio degli Stati Uniti. La generosità di finanziamenti alle università americane che aprono nuovi corsi di mandarino e ospitano gli Istituti Confucio, si è accompagnata a crescenti pressioni per censurare iniziative critiche verso Xi Jinping, penalizzare studiosi non allineati col regime. Non sono solo i paesi asiatici o africani a subire quel genere di condizionamenti. Tutte queste preoccupazioni – dal contagio dei debiti all’influenza politico-militare – sono state riprese e amplificate da Trump. Di suo ci ha aggiunto un tema più recente: la corsa cinese alla supremazia nelle tecnologie avanzate, dalla quinta generazione della telefonia mobile (5G) all’intelligenza artificiale.

È sotto Trump – ma con un consenso bipartisan al Congresso – che si è aperto il caso Huawei: la pressione su tutti gli alleati perché chiudano le porte a un colosso di Stato che può dominare le infrastrutture della telefonia mobile e consegnarle allo spionaggio di Pechino. L’Italia su questo punto sembra dare ascolto ai moniti di Washington. Ma gli altri paesi europei sono più filo-cinesi. Germania e Regno Unito non soltanto ricevono investimenti diretti cinesi assai superiori all’Italia, ma si rifiutano di tagliare i ponti con Huawei come vorrebbe Washington. Emmanuel Macron ha corteggiato Huawei facendole ponti d’oro perché aumenti il suo ruolo in Francia. La disgregazione di ogni solidarietà occidentale è stata accelerata dallo stesso Trump, che col suo approccio bilaterale al contenzioso commerciale Usa-Cina non ha mai tentato di cementare una coalizione d’interessi con gli alleati. Il fuggi fuggi in direzione di Pechino era iniziato però sotto Obama, quando i quattro maggiori paesi Ue (Italia inclusa) decisero di aderire all’Aiib, la banca della Via della Seta.

Sorgente: Via della Seta, gli Usa temono che l’Italia diventi il cavallo di Troia di Pechino in Europa | Rep

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