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Corteo record nelle strade di Londra per chiedere un secondo referendum. “Mi hanno ingannato. Ora so. Rivotiamo o revochiamo”

di LUCA BOTTURA

“Siamo stati i primi a farci infettare dal populismo, dobbiamo essere i primi a tornare indietro”.
La giovane esponente Labour parla su un baule per telecamere, al lato della fiumana gialloblu, mentre già la gente rumoreggia perché vuole mettersi in moto, percorrere il miglio scarso che separa Hyde Park da Westminster. Nell’aria, parole che da noi sembrerebbero una provocazione: classi, poveri, tolleranza, integrazione. Addirittura “comrades”. Compagni.

Uno via l’altro, sul trabiccolo nero di questo speaker corner anabolizzato, salgono in tanti. Il sunto è che se davvero Londra se ne andrà, sarà più difficile essere indigenti o scuri di pelle, in questo Paese. Laura dice che l’Europa le ha portato l’amore, e l’amore è italiano: Dimitri, musicista. Che interviene subito dopo di lei. E subito prima di una ragazza mussulmana. Parla a nome del cosiddetto Londonistan. Ricorda la strage in Nuova Zelanda con toni pacificanti, usa slogan semplici: “United we stand, divided we fall”. Cadiamo, se divisi.

Intervengono soprattutto donne. Attaccano la May. Se la prendono con l’ignavia di Cameron, che con la Brexit ha importato il “franchising dell’estrema destra di Trump”. Ridicolizzano Boris Johnson, l’ex sindaco pettinato come the Donald che doveva curare il Leave. Ma ripetono, anche, che l’ignavia del loro leader, Corbyn, è matrigna di quella che l’Evening Standard chiama, a caratteri di scatola, “the march to stop the madness”. La marcia contro contro l’impazzimento collettivo.

Per motivi astrali, sono stato in Venezuela e a Londra poco prima che il precipizio si palesasse in tutta la sua indifferente rudezza. Là, un populismo parente strettissimo di quello a Cinque Stelle, con uno stato socialnazionalista che ha trasformato la gente in sudditi, appesi come sono all’elemosina di regime. Qui, il sovranismo finalmente realizzabile. Senza sapere dove accidenti andare. Due tiranti che slabbrano l’Italia come il protagonista de “L’uomo chiamato cavallo”, solo rallentati dalla disomogeneità dei due modelli suicidi.

Sedici anni fa, per molta meno gente in piazza contro la guerra in Iraq, Tony Blair si dimise. Lo racconta a Channel 4 una conduttrice che indossa il velo. Pensate se succedesse da noi. Invece è pure normalità, cristosanto. Come la forza tranquilla del milione che gli organizzatori si attribuiscono e che Scotland Yard non smentisce. Una folla prepolitica, naif, figlia della secchiata d’acqua gelida che ha colpito in faccia parecchi di quelli che volevano andarsene. Non Nigel Farage, che buffoneggia triste e solitario in una piazza poco distante.

Intanto in piazza le bandierine europee, che gli italiani non accettano neanche regalate, passano di mano a cinque sterline l’una. La casupola di souvenir brits vicina al London Eye espone il cartello dei saldi. Quelli la May sperava di estorcere a Bruxelles e invece no. Un bambino sorregge un cartello di cartone, scritto da mani altrui ma spiritose: “Io ho un piano ce l’ho e ho solo 4 anni”.

Uno sfogo collettivo che colora Trafalgar di bandiere dell’Unione e di Scozia, Irlanda, Galles, a ricordare che si può sempre essere exiters di qualcun altro. Solo due tizi appollaiati su uno dei leoni osservano infastiditi: uno porta il tatuaggio di Forza Nuova. Chi aveva scelto il leave lo riconosci dai cartelli: “Mi hanno ingannato. Ora so. Rivotiamo o revochiamo”. Gli altri giocano, serissimi. Ci sono i mimi contro la Brexit, giuro. Quelli che parafrasano Whitney Houston, sprezzanti della cabala: “I will always love EU”. Quelli che sfottono Corbyn, ritratto dormiente, citando gli Wham: “Wake me up before EU gogo”. Chi gioca sull’assonanza tra cabinet (cassettiera) e cabinet (governo): “L’Ikea ne ha di migliori”. Ci sono bambini che mollano in cielo i palloni a forma di unicorno, simbolo della neverending Brexit. E lo slogan definitivo, brandito da una ragazza orientale: “Se sono in piazza persino io, vuol dire che la situazione è realmente grave”.

Chissà se il campione che sciama allegro verso casa, nonostante misure di sicurezza ridicole (sono arrivato sul palco senza mostrare alcun documento), rappresenti davvero, ora, la maggioranza che non c’era. Certo, questa distinzione grottesca tra popolo ed élite, quella che dall’altra parte della Manica ci sembra una contemporaneità ineludibile, ieri forse ha cominciato a polveirzzarsi. Il popolo, questo popolo, non vuole rinunciare ai diritti che l’Europa ha consolidato. Casomai vuole estenderli a chi non ne ha. Forse perché sono stati i primi ad infettarsi col populismo. E adesso vogliono guarire.

Sorgente: Un milione contro la Brexit, tra i “malati di populismo” che ora vogliono guarire | Rep

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