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Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini (LaPresse)

Non si può sopportare a lungo un governo paralizzato dai conflitti e una guerra delle promesse che pesano negativamente sui mercati

di Luciano Fontana

C’è una frase che accompagna ogni discussione politica, pubblica o privata, in questi giorni. Ce la ripetono tutti e ce la ripetiamo tra di noi in continuazione: «Dopo le Europee cambia tutto». Il voto del 26 maggio sta assumendo i contorni di un appuntamento salvifico, di un bagno purificatore. Cosa cambierà non è ben chiaro: forse i Cinque Stelle (sconfitti annunciati) si ritireranno dalla maggioranza, oppure Matteo Salvini (vincitore altrettanto annunciato) deciderà di passare all’incasso e diventare il numero uno indiscusso. È possibile che si torni a votare ma non si può escludere che i Cinque Stelle (altro scenario evocato spesso), si spacchino tra un’ala di governo pronta a continuare l’avventura con la Lega e un’ala movimentista desiderosa di tornare all’opposizione.

Francamente è difficile prevedere cosa accadrà fra due mesi. Abbiamo però una certezza: il governo si è trasformato in un campo di battaglia. Il contratto è finito nel cassetto e viene tirato fuori solo per dire cosa non si può fare. I due contraenti sono quotidianamente impegnati nel rito di attaccare le proposte dell’alleato. Le proprie idee diventano verità assolute da contrapporre a quelle dell’alleato-rivale e da consegnare per un giorno al pubblico. Salvo il giorno dopo abbandonarle per passare a un altro capitolo della saga gialloverde. È una strategia deliberata, neppure più nascosta, anzi consegnata ai mass media come chiave per interpretare la nuova fase.

Se Salvini mette in mora Luigi Di Maio sulla Tav, il giorno dopo Di Maio si esercita in un’incursione sulla sicurezza, campo finora dominato dal leader leghista. E l’elenco diventa ogni giorno più lungo: accordi con la Cina, cantieri, banche, antimafia. Ieri è stato il turno dei diritti civili e delle famiglie con accuse sempre più violente e un incredibile livello di tensione nel governo.

L’interrogativo ora è se ci sia qualche punto su cui gli alleati sono d’accordo, qualche misura che possa essere portata all’approvazione, dopo quelle di bandiera su Reddito e quota 100. Ci sono tantissimi problemi aperti da affrontare, ma i consigli dei ministri sono diventati sempre più brevi: di solito riunioni in cui si decide di rinviare alla puntata successiva o in cui ci si accorda su titoli che nessuno riempirà di contenuto.

Il sospetto è che a tenere unita la maggioranza gialloverde siano ormai soltanto convenienze politiche (e personali) che poco hanno a che fare con l’interesse del Paese. Di Maio si sta giocando la partita della vita. Il Movimento Cinque Stelle gli ha affidato il compito di portare i «rivoluzionari» al governo, ma giorno dopo giorno i risultati sono sempre più magri. E i consensi elettorali stanno scendendo vertiginosamente. Se non riesce a invertire la rotta la sua esperienza è vicina al capitolo finale.

Matteo Salvini è in una posizione più comoda, i sondaggi gli danno ragione. Vuole governare in nome del nuovo. Con il gemello Di Maio ha un patto generazionale contro i vecchi leader e non sopporta l’idea di tornare a fare i conti con l’alleanza di centrodestra, e in particolare con Berlusconi. Li farà solo quando sarà obbligato e dopo aver cercato di prosciugare l’elettorato di Forza Italia.

Tutto comprensibile, tutto molto umano se si guarda agli interessi personali e di partito. Molto meno giusto se lo sguardo cade sui dati economici, sulla recessione tornata dopo una breve stagione di ripresa, sul deficit di fiducia che sembra aver conquistato consumatori, imprese, investitori italiani e stranieri.

L’Italia è un Paese straordinario per capacità imprenditoriali, per livello di risparmio, per l’energia con cui sa fronteggiare alcune emergenze. Ma credo che non possa sopportare a lungo un governo paralizzato dai conflitti e una guerra delle promesse che pesano negativamente sui mercati. Non possiamo mettere la politica tra parentesi o infilarci tappi nelle orecchie come i compagni di Ulisse per non ascoltare le sirene.

I due alleati dovrebbero seriamente spiegare al Paese che cosa stanno facendo. Dovrebbero verificare con onestà se ci sono ancora le condizioni per andare avanti. O prendere atto che dietro la foglia di fico del contratto c’è il vuoto.

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