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18 April 2024
0 11 minuti 5 anni

La nuova tendenza dei leader di Fratelli d’Italia e Lega è incontrare le comunità di immigrati regolari e reclutarli ottenendone un ritorno propagandistico. Così ha fatto Giorgia Meloni sposando la causa di un gruppo di patrioti camerunensi di Ferrara “per liberare le ex colonie francesi dal giogo del franco Cfa”, la comunità monetaria africana che versa ancora il 50% delle riserve valutarie alla Banca di Francia, ed è legata al tasso fisso dell’euro nell’interesse delle multinazionali occidentali. Oltre a essersi scoperti terzomondisti, entrambi i partiti hanno deciso di nominare persone di origine africana a responsabili dell’immigrazione. È ad esempio il caso dell’italo-senegalese Paolo Diop di FdI e dell’italo-nigeriano Toni Iwobi del Carroccio, primo senatore nero in Italia. L’idea di Lega e Fratelli d’Italia sembrerebbe quella di mettere a tacere le frequenti accuse di razzismo, rispolverando il mito degli italiani brava gente, unico popolo che non si sarebbe macchiato dei crimini che hanno caratterizzato la storia coloniale europea degli ultimi due secoli. 

I numeri della nostra breve avventura coloniale raccontano però una realtà diversa. Anche l’Italia ha violato i diritti umani, tracciato confini a tavolino, fomentato l’odio tra le popolazioni africane. In particolar modo Meloni, che ha iniziato la sua militanza politica nel 1992 nel Movimento sociale italiano, fondato da reduci e nostalgici del fascismo, non può dare lezioni di morale o di storia al presidente francese Emmanuel Macron. La Libia aspetta ancora oggi il risarcimento di cinque miliardi di dollari per i danni e le decine di migliaia di morti causati dalla dominazione italiana: Angelo Del Boca, il massimo storico italiano, specializzato nel periodo coloniale in Nord Africa, ha stimato che i 30 anni della nostra occupazione abbiano causato almeno 100mila morti, di cui 40mila durante la repressione delle rivolte in Cirenaica, nell’est della Libia. 

Badoglio e Graziani in Etiopia, 1936

Tra il 1930 e il 1931 il generale Pietro Badoglio e il suo vice Rodolfo Graziani – poi presidente onorario dell’Msi – sganciarono gas iprite contro le popolazioni beduine e le deportarono in decine di campi di concentramento nel deserto. Nel libro Gli italiani in Libia di Del Boca, un ex pilota rievoca divertito le azioni dell’epoca contro le colonne di civili e di ribelli in ritirata: “Le bombe hanno scarso effetto perché il bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia. Il gioco continua per tutta la giornata, le carovaniere della speranza diventano un cimitero di morti”. Diversi di quei ribelli fuggivano da Cufra, l’ultima roccaforte di resistenza agli italiani. L’oasi della Libia Sud-orientale – dove stazionano oggi migliaia di migranti diretti in Europa e ostaggio dei trafficanti – era la città santa dei sunniti che guidavano la ribellione. Dopo l’assedio e la caduta, il loro leader Omar al Mukhtar (quello della foto sul petto di Gheddafi nella visita a Roma) resistette per mesi nel deserto, fino alla cattura e all’esecuzione in un campo di concentramento di Bengasi nel settembre del 1931.

Pochi anni dopo Graziani, promosso viceré dell’Abissinia, replicò le violenze di massa in Etiopia per ordine di Benito Mussolini. Ma tanto lui quanto Badoglio non vennero mai processati negli anni a seguire, né in Italia né all’estero, nonostante siano stati poi inseriti nella black list dell’Onu dei criminali di guerra. Anzi, nel 2012 al gerarca Graziani, che in Etiopia bombardò anche gli ospedali della Croce Rossa, fu dedicato un mausoleo ad Affile, nell’hinterland di Roma. Proprio questo marzo, al sindaco che lo permise, Ercole Viri di Fratelli d’Italia, è stata confermata dai giudici di appello la condanna per apologia del fascismo. L’ex primo cittadino aveva voluto un sacrario militare per “il Soldato”, come veniva chiamato nel piccolo comune il generale fascista che ci aveva vissuto per anni. In Italia, la sentenza, che per Viri è “colpa dei giudici politicizzati”, non ha fatto molta notizia. Al contrario, in Africa i racconti sul “macellaio degli arabi” si sono tramandati fino ai giorni nostri, tanto da influenzare anche la propaganda del terrorismo di matrice islamica. Alcuni spezzoni del film Il leone del deserto (1981) voluto dal colonnello Gheddafi per ricordare l’eroe della resistenza libica al Mukhtar, sono apparsi in un video dell’Isis del 2016. Nello stesso anno diversi media africani hanno trasmesso un messaggio di minacce, attribuito ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), destinato “Ai nipoti di Graziani che umilieremo per essere entrati nella terra di Omar al Mukhtar”.

Per giustificare la nostra presenza in Africa vengono spesso citati i progressi nell’urbanistica importati dagli italiani nelle colonie, senza però mai precisare a quale prezzo. Già all’inizio del Novecento, l’attuale capitale dell’Eritrea Asmara, era organizzata secondo un rigido schema di segregazione razziale, con il centro riservato agli italiani e gli eritrei segregati nelle periferie, seguendo un modello replicato anche nelle scuole, negli ospedali e negli altri servizi pubblici. Gli africani venivano prima degli italiani solo al fronte. Graziani, come altri comandanti coloniali, non si fece infatti scrupoli a fare carne da macello dei giovani africani: solo nel biennio 1935-1936 morirono tra i 3500 e i 4500 ascari eritrei nella guerra di conquista dell’Etiopia. Andò ancora peggio alle donne delle popolazioni sottomesse, come testimonia il racconto di Indro Montanelli sulla sposa bambina di 12 anni da lui comprata in Abissinia e ricordata anni dopo come “Un animalino docile”. Gli italiani si immortalavano accanto alle africane nude, viste come bottini di guerra per scaricare i peggiori istinti, giustificati dalla teoria che “Nella razza negra l’inferiorità mentale della donna confina spesso con una vera e propria deficienza”, come scritto nel numero del giugno 1938 della rivista La difesa della razza.

Stupri, donne e minori mitragliati ritornano di continuo nelle testimonianze raccolte in anni di ricerche da Del Boca e da altri storici come Giorgio Rochat. Anche in Etiopia gli italiani sono riusciti a distinguersi per i loro crimini, fino all’uso delle armi chimiche, vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1928, sui soldati dell’imperatore Hailé Selassié che denunciò la violazione nel 1936 alla Società delle Nazioni (poi Nazioni Unite). Teatro di un altro massacro in Africa fu quell’anno la battaglia sul massiccio dell’Amba Aradam (toponimo diventato poi sinonimo di caos in italiano), che Badoglio vinse propagando gas iprite contro le forze nemiche: l’Italia avrebbe ammesso la strage solo nel 1996, quando furono desecretati alcuni documenti della Difesa. L’odio maturato contro il generale Graziani in Abissinia portò nel 1937 due eritrei a tentare di ucciderlo ad Addis Abeba, scatenando una rappresaglia che durò mesi, arrivando anche all’uccisione di centinaia di religiosi cristiani copti, accusati di simpatizzare con gli attentatori. Il documentario If Only I Were That Warrior del 2015 di Valerio Ciriaci ricostruisce quegli orrori, visitando i luoghi delle stragi e portando in luce il numero ufficiale delle vittime, a lungo coperto dal segreto di Stato. Solo i carabinieri uccisero più di 2500 etiopi tra il febbraio e il maggio 1937, per tenere fede al telegramma di Mussolini che chiedeva un “radicale repulisti”. L’Etiopia denunciò 30mila morti, mentre la stampa europea ne contò tra i tre e i 6mila, senza contare i migliaia di abissini deportati in Italia e in Somalia. La carneficina ordinata da Graziani fu l’ultimo atto di una campagna di sterminio ordinata nel 1936 dallo stesso Duce, che aveva autorizzato i suoi generali “A condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio”, perché “senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile”.

Il colonialismo italiano fu tanto breve quanto cruento, al punto che anche inglesi e francesi rimasero impressionati dalla brutalità della pulizia etnica fascista. Ciro Poggiali, inviato del Corriere della Sera ad Addis Abeba in quegli anni, scrisse nel suo diario: “Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente.”

Soldati italiani caricano cibo e armi sugli aerei che andranno a rifornire le truppe nella battaglia di Amba Aradam, Etiopia, 1936

L’eredità degli italiani ha pesato anche sul conflitto ventennale tra l’Etiopia e l’Eritrea, lungo la frontiera che divide le due ex-colonie. Allo stesso modo gli italiani non possono chiamarsi del tutto fuori dal fallimento della Somalia, dove la loro dominazione non permise mai agli abitanti l’accesso all’istruzione, come già in Abissinia e in Libia; e dove, nei decenni della caotica indipendenza seguiti all’occupazione britannica, hanno scaricato tonnellate di rifiuti tossici sulle sue coste fino agli anni Novanta. Nel corso del disastroso intervento militare americano, anche gli italiani in missione sono stati accusati di essere responsabili di torture, morti e stupri, mentre il 20 marzo 2019 ricorrevano i 25 anni del giallo dell’uccisione a Mogadiscio dei reporter Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Sugli ultimi casi in Somalia non sono stati aperti tutti gli archivi di Stato, né si sono chiusi i processi. Ma anche in mancanza di prove certe, come tante altre volte in passato, non può essere esibita, come nel periodo coloniale, una superiorità morale degli italiani.

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Sorgente: Perché l’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale?

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