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Ho abitato per venticinque anni proprio di fronte all’Asilo occupato di via Alessandria 12 a Torino. Dalle finestre della mia abitazione potevo vedere tutto quel che succedeva dentro l’Asilo, la gente che andava e veniva, i viaggiatori con lo zaino in spalla ospitati per la notte, le feste di autofinanziamento del martedì sera (che si concludevano, salvo sporadici casi, entro l’una di notte) e, soprattutto, i vari tentativi della polizia, nell’arco di questo lungo periodo, di sgomberare e riconsegnare al Comune lo stabile in questione. Vedevo i ragazzi salire sul tetto e passarvi la notte, la polizia fare cordone intorno all’isolato e andarsene dopo poche ore. Normalmente gli assedi non duravano più di 12-24 ore. Poi tutto tornava come al solito. E sono passati venticinque anni.

Forse qualcuno sarà curioso di sapere come ci siamo sentiti noi, abitanti della palazzina prospiciente al centro sociale.

Nei primi due o tre anni abbiamo sperato che venisse sgombrato: come tutti, abbiamo pensato che la loro presenza degradasse la zona. Erano sbilenchi e sporchi – almeno così sembra al nostro senso estetico –, perennemente vestiti di nero e “poveri”. La povertà fa sempre paura, anche se degli altri. Eravamo indignati: avevamo sperato di mandare in quell’asilo, per la verità già piuttosto triste e male in arnese, nostro figlio nato da poco. Almeno aveva la comodità di essere davanti a casa.

Intendiamoci, non era necessario che la zona venisse degradata da loro, perché al degrado avevano già contribuito molti altri fattori del tutto indipendenti e di più vecchia data, a partire dalla discoteca che per anni ha imperversato in corso Brescia (il Big Club, qualcuno se la ricorderà) con la sua inevitabile scia di vetri rotti e furti nelle auto parcheggiate in zona, con l’assedio delle auto dei clienti parcheggiate ovunque in doppia e a volte tripla fila (il nostro passo carraio regolarmente occupato da auto che ci impedivano di entrare o uscire liberamente), con gli schiamazzi dei “ragazzi per bene” che, uscendo assordati dalla musica, chiacchieravano fino alle 4 o 5 del mattino ad altissima voce, del tutto incuranti del bisogno di riposo degli abitanti del quartiere. O della LIDL di via Aosta, punto di raccolta di tutti i disperati, extracomunitari o meno, che bivaccavano e defecavano, spesso ubriachi fradici, dentro il parcheggio o lungo la via. Non c’è voluto molto a capire che era anche un punto di raccolta per il caporalato, con temibili figuri a presidiare quel commercio. Qualche anno fa, proprio lì davanti, in via Chivasso, gli abitanti hanno subìto impotenti la notizia dell’omicidio di un rumeno assassinato a colpi di machete! I comitati di quartiere ci hanno messo anni a ottenere che la zona fosse, almeno parzialmente, ripulita. Per non parlare delle zone di spaccio sotto i ponti sulla Dora o negli isolati tra corso Giulio Cesare, l’inizio di corso Brescia e corso Emilia, dove la situazione ad oggi non è cambiata. Il morto ammazzato a colpi di arma da fuoco in via Alessandria, l’auto incendiata proprio davanti al centro sociale, gli episodi di accoltellamenti davanti a uno dei bar nelle immediate vicinanze – tra via Alessandria, via Parma, via Bologna e corso Brescia – che per tutti questi anni hanno raccolto gli sfaccendati e delinquentelli di vedetta alla ricerca di qualche alloggio, garage, cantina da svaligiare. Ne siamo stati vittime anche noi più volte – non ultima proprio una settimana prima dell’attuale sgombero – anche se tutto il quartiere sosteneva e sostiene ancora, ubriacato delle parole dei Salvini di turno, che i furti sono opera alternativamente degli zingari o di quelli del centro sociale.

Per anni mi sono spesa nel sostenere che i ragazzi dell’Asilo non sono quel tipo di delinquenti. Forse occupano illegalmente, forse manifestano violentemente, forse fanno la spesa proletaria in qualche supermercato di zona, ma di certo non vanno a svaligiare alloggi, non accoltellano gente o scippano per strada. L’unica responsabilità che potrei attribuire (sottolineo potrei) a questi ragazzi, o ai loro ospiti, è quella di aver sconciato l’intera facciata della nostra palazzina e quella di fianco, con un murales enorme che, ovviamente, costerà soldi ripulire.

Certo, fatte queste premesse, rimaneva la considerazione che “occupare” è un’attività fuori legge. Ma dopo qualche anno dall’occupazione del 1995 ho cominciato a pensare che, se il Comune non necessitava di quell’asilo (sarà proprio così?), non era così irragionevole che altri lo utilizzassero in modo diverso e, perché no?, come centro sociale. Molti mi hanno spesso opposto che gli spazi per i giovani, i centri sociali, ci sono, ad esempio gli oratori: io i miei figli non li avrei mandati all’oratorio neppure in fotografia.

In fin dei conti avere davanti a casa un immobile abbandonato è molto più triste e, direi, pericoloso. Mi dispiace, ma non posso che fare miei alcuni capisaldi degli squatter: il proprietario che lascia uno spazio abbandonato (per decenni, aggiungo io, infliggendo alla gente che abita intorno notevoli disagi, e qui in Aurora e Barriera di Milano ne siamo letteralmente circondati) lo fa per speculare; uno spazio abbandonato e inutilizzato è uno spreco; occupare uno spazio abbandonato significa restituirlo a tutti (fonte: radar.squat.net). Su quest’ultimo punto posso avere qualche perplessità. Mi domando ad esempio se noi, comuni cittadini piccolo borghesi, saremmo mai stati ammessi nel comitato di gestione del centro sociale.

Non mi sono candidata e non lo saprò mai.

Li ho visti, armati di pennelli, ridipingere la loro facciata sottraendola all’abbandono e al degrado al quale l’aveva condannata l’amministrazione pubblica, li ho visti fare l’orto nel grande giardino, li ho visti coltivare talee sugli ampi terrazzi, li ho visti scaldarsi con i camini a legna ma, soprattutto, ho visto che per tutti i venticinque anni, qualcuno gli ha fornito l’energia elettrica e l’acqua.

Posso dire che, per tutto il tempo che ho vissuto di fronte a loro, sono stati gli unici che, all’occorrenza, mi hanno aiutato senza porre riserve. Ad esempio, quando i vigili urbani non si facevano vedere nonostante le reiterate telefonate, un’infinità di volte mi hanno aiutato a spostare di peso, a braccia, auto che qualche onesto cittadino aveva parcheggiato per ore e ore – senza curarsi di lasciare un recapito telefonico – davanti al passo carraio.

Perché mi confesso? Perché in tutto questo tempo mi sono comportata in modo codardo: qualcuno mi direbbe in modo “prudente”. Non mi sono mai avvicinata a loro troppo preoccupata che una frequentazione più stretta potesse danneggiarmi: in fin dei conti abito proprio davanti! Il mio atteggiamento è stato ambivalente. Non ho mai cercato un confronto con loro, né d’altro canto li ho mai osteggiati e tanto meno condannati.
La verità è che li capisco e li stimo. Ho spesso pensato che sono meglio loro, ai quali frulla qualche ideuzza nella testa e per la quale sono disposti a battersi e rischiare, piuttosto che quelli all’estremo opposto che si sfondano di videogiochi, chiacchiere sul calcio e shopping compulsivo.

E ora che se ne sono andati sento un vuoto dentro e penso di vivere una dimensione scissa: sono infinitamente dispiaciuta per loro, ma nel contempo provo la soddisfazione della piccola borghese che pensa finalmente che il quartiere, e di conseguenza il proprio immobile, senza la loro presenza possa rivalutarsi. Confesso che me ne vergogno. Mi sento lacerata e arrabbiata.

E quando l’altra sera ho visto quegli incredibili ragazzi sul tetto ripido e instabile (di oltre cent’anni fa e pieno di buchi), imbacuccati e infreddoliti a pochi metri da me, l’impatto emotivo è stato forte. Di fronte al loro coraggio mi sono sentita piccina. Nell’immediato ho reagito tirando le tende del mio appartamento.

Essendo posti alla stessa altezza, io li potevo vedere a pochi metri da me e loro potevano vedere l’interno di casa mia altrettanto nitidamente. Quella sera – aspettavo mia figlia in visita per pochi giorni – stavo preparando un soffice letto di piume d’oca e cucinando una cenetta in un bell’alloggio caldo. Mi è parso inopportuno che vedessero la scena: ma forse provavo solo vergogna. E dopo un po’ sono uscita sul mio balcone per dir loro che mi dispiaceva. Non sono riuscita a dire altro, e me ne rammarico, ma le parole non mi venivano. Loro mi hanno risposto sorridendo tranquilli con i pollici alzati, dicendomi “Grazie”. Non mi merito i loro pollici alzati e il loro “grazie”, perché per loro, in quel momento e negli anni prima, non ho fatto nulla. Sono arrabbiata perché non ho voluto né potuto fare di più: ho avuto paura di schierarmi con loro e nello stesso tempo, la vecchia ragazza che ancora alberga in me, avrebbe voluto farlo. Confesso che ho temuto il giudizio della polizia che stava sotto le mie finestre. Ho passato venticinque anni diffidando di loro e quella terribile sera ho diffidato della polizia che stava compiendo il suo mestiere e difendendo anche i miei interessi.

Il venerdì ho continuato a lavorare e ogni volta che tornavo a casa e venivo scortata al portone da gentili funzionari di polizia, chiedevo aggiornamenti: alle loro risposte – ne sono rimasti quattro, ce ne sono ancora due ecc. – mi sentivo stringere il cuore e di nuovo mi sentivo dolorosamente lacerata. Ho desiderato che l’operazione fosse un fallimento e, nello stesso tempo, ero consapevole che l’occupazione prima o poi doveva finire. Era anche nel mio interesse, ma non per questo è stato privo di sofferenza.

La polizia comunque ha dimostrato professionalità e tatto nel gestire la comunicazione con gli abitanti. Per una volta si sono tolti la maschera da cane da guardia rabbioso e hanno accettato di dialogare. Gliene sono grata. Mi sarebbe stato penoso comunicare con qualche picchiatore in pectore e con la verità in tasca.

Nell’innaturale silenzio nel quale è immerso l’intero isolato, rotto solo da lavori dei muratori che tappano porte e finestre, ho pensato che, al di là dei proclami delle istituzioni o di quelli degli squatters, forse a qualcuno può interessare il sentimento della gente comune come me. Sulla faccenda sono molto lontana dall’essere in pace, e forse altri la pensano allo stesso modo.

Mi hanno spesso chiesto – la polizia stessa, che in questi giorni presidia sotto casa in attesa di completare i lavori che sigilleranno definitivamente l’asilo – se questi ragazzi abbiano mai disturbato, aspettandosi sempre la risposta che per loro era più ovvia. La risposta, che non è quella più ovvia, in ultima analisi, è no. Non che fossi felice, ma mi hanno disturbata enormemente di più la discoteca, i bar malfamati, i furti, lo spaccio di droga e la maleducazione generalizzata di certi cittadini, come quelli che permettono ai cani di depositare le deiezioni proprio davanti al portone senza raccoglierle, i parcheggi selvaggi, l’incuranza per la cosa pubblica, la manifestazione ostentata della più cupa ignoranza. Azioni degli stessi onesti cittadini che si sono intestarditi per anni a dirmi che l’origine di tutti i problemi del quartiere era responsabilità del centro sociale e degli zingari.

Ho sentito spesso anziani signori e signore dichiarare candidamente, convinti di avere la mia approvazione perché sono una signora per bene, che questi ragazzi “avrebbero dovuto essere chiusi dentro e pestati a sangue dalla polizia” (la rabbia di questo signore mi ha particolarmente colpita), che sono degli “sfaccendati che non hanno altro di meglio da fare”, che “i loro genitori avrebbero dovuto far capire loro come gira il mondo a suon di bastonate” e così via. Per quel che riguarda gli zingari i commenti sono stati, se è possibile, anche peggio.

Bene. Ora abbiamo raddrizzato la situazione.

Io continuerò ad abitare qui e spero veramente che tutto questo dolore – il mio e quello degli squatter – sia servito a qualcosa. L’ottocentesca campanella sul tetto che chiamava i piccoli alunni non c’è più da giovedì notte e io, inaspettatamente, ne sento la mancanza. Ho invece il triste panorama dell’asilo murato. Per quanto starà così? Perché se dovesse rimanere in questo stato per i prossimi anni, a rioccuparlo non saranno più gli squatter. Se invece verrà riqualificato, spero veramente che essendo l’immobile sottoposto a vincolo, venga rispettata la sua naturale bellezza (e magari la sua destinazione d’uso) e qualche furbacchione non riesca a costruire una orrida palazzina di cinque piani confermando, di fatto, il primo caposaldo del pensiero squat sulla teoria dell’occupazione.

Sorgente: Lo sgombero dell’Asilo occupato e le confessioni di una cittadina perbene di Maria Cinzia Bianchin

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