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Il depistaggio nella ricerca della verità sulla morte di Stefano ha coinvolto per nove anni tutti i gradi dell’Arma dei Carabinieri

di Carlo Bonini

L’Arma dei Carabinieri conosce il suo giorno della vergogna. Perché raggelante è stato lo spettacolo offerto ieri, nell’aula di Corte di Assise dove vengono processati i carabinieri imputati dell’omicidio di Stefano Cucchi, dal convitato di pietra di questo processo, il generale di corpo d’Armata Vittorio Tomasone, l’ufficiale al vertice della catena di comando che depistò la ricerca della verità. E perché raggelante è ora la prova della macchinazione, documentata dalle nuove, decisive carte prodotte dalla pubblica accusa, con cui l’Arma, nell’ottobre del 2009, indusse un ministro della Repubblica (Angelino Alfano, allora alla Giustizia) a mentire al Parlamento, a far deragliare per nove anni la ricerca della verità di una Procura della Repubblica impegnata in una partita che ignorava fosse “truccata”, a predisporre, prima ancora che la scienza medica si chinasse sul corpo martoriato di quel ragazzo, gli argomenti medico-legali che avrebbero dovuto nel tempo elidere anche solo il sospetto che fosse stato selvaggiamente pestato in una caserma.

È stato penoso e a tratti oltraggioso dover ascoltare un ufficiale di Stato Maggiore, un pezzo della storia recente dell’Arma, farfugliare con una qualche prosopopea una ventina almeno di “non ricordo”. E riferirsi ripetutamente a Stefano come al “geometra Cucchi”, in un precipizio lessicale che teneva insieme l’ipocrisia postuma per ciò che nelle carte false dell’Arma di quel ragazzo era stato detto – “tossicodipendente, anoressico e sieropositivo” – e il cinismo che si riserva a un “danno collaterale”. Così penoso e così oltraggioso che da oggi, possiamo dire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che, simbolicamente, il caso Cucchi stia all’Arma dei carabinieri come la “Diaz” lo è stata alla Polizia di Stato. Perché in quella buia caserma della Casilina dove Stefano venne pestato una notte di ottobre del 2009, si è consumato prima e dopo il medesimo doppio oltraggio che si era consumato otto anni prima, una notte di luglio del 2001, in una scuola alle pendici di Genova. Innocenti nella custodia dello Stato vennero prima abusivamente violentati nel corpo. E quindi, con altrettanta violenza e protervia, i nomi dei responsabili dell’abuso vennero coperti e sottratti alle loro responsabilità. Contesti diversi. Identica grana. Identica miopia di un apparato dello Stato nel cercare rifugio prima nella medicina del tempo e quindi in quella di un accertamento infinito della verità giudiziale. Identica posta in gioco, come ha voluto sottolineare ieri in aula il coraggioso pubblico ministero Giovanni Musarò che, con e grazie alla solidità del suo procuratore Giuseppe Pignatone, ha ostinatamente trovato e dipanato il bandolo della menzogna. “Oggi – ha detto – la questione non è più solo la doverosa verità a una famiglia, ma la tenuta del sistema”.

Hanno pensato per nove anni di farla franca. Poi, quando le cose si sono messe male, di cavarsela con la storiella di un drappello di mele marce in divisa capaci prima di ammazzare di botte Stefano e poi di farla sotto il naso a una catena di comando come a un Pulcinella in mezzo ai suoni. Perché questo provano le carte. Perché questo ha detto l’udienza di ieri. L’intera catena di comando dei carabinieri di Roma, nel 2009, a titolo diverso, dal più alto ufficiale in grado, all’ultimo degli appuntati, manipolò la verità, la orientò, o, peggio, preferì non vederla per pavidità, ossequio, cinismo, carrierismo. Per omertà di Corpo, se la vogliamo dire con una parola sola. E per la stessa ragione, ancora nel 2016, quella verità continuò a essere tenuta in ostaggio negli archivi di un comando provinciale negando alla procura documenti cruciali, ovvero trasmettendoli in modo tale che non fossero intelligibili.

Oggi, dunque, non tiene più la legittima e comprensibile obiezione mossa sin qui dai Comandanti Generali che in questi anni hanno dovuto dare conto al Paese di che diavolo fosse successo e stesse succedendo nel caso Cucchi. Non si può continuare a dire che il processo e l’inchiesta sul caso Cucchi sono un’ingenerosa e irresponsabile chiamata di correo per le decine di migliaia di militari, donne e uomini, che ogni giorno servono lealmente il Paese. Da oggi, piuttosto, la narrazione si ribalta. E dunque chi dovesse continuare a trincerarsi dietro quella obiezione deve sapere che così facendo offenderà innanzitutto non solo l’intelligenza del Paese, ma anche chi la divisa dell’Arma la indossa con legittimo orgoglio e dà prova di lealtà. Come quel tenente colonnello che, scopriamo oggi, qualche mese fa, ha consentito al pm di andare a cercare la prova regina del processo lì dove l’Arma la custodiva e da dove nessuno aveva pensato di tirarla fuori.

Nessun apparato di sicurezza in nessun Paese si lascia processare a cuor leggero. Ma in una democrazia gli apparati che manipolano la verità giudiziaria ne mettono a rischio le fondamenta. Tradiscono la fiducia dei cittadini, quella della magistratura di cui sono istituzionalmente lo strumento di ricerca della prova. Tradiscono il giuramento alla Costituzione e il patto repubblicano. Non ci sarebbe bisogno di dirlo. E il doverlo fare ci dice qualcosa sul nostro stato di salute. Dunque vorremmo pensare che il Comandante Generale, il generale Nistri, da oggi, voglia cominciare a rispondere a una domanda: come è stato possibile il sequestro della verità per nove anni? O anche solo ad abbozzare una riflessione coraggiosa come quella che, nell’estate del 2017, su questo giornale, fece il capo della Polizia Franco Gabrielli sui fatti di Genova. E che magari anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, tra un cappellino e una felpa, trovi il tempo di leggere le carte depositate ieri al processo Cucchi. Magari lo aiuterebbero da domani a qualche sortita pubblica di “senso” sugli apparati del Paese. Che non siano ovvietà come “Io sto con l’Arma, amici, e voi?”, piuttosto che un selfie identitario o degli sgangherati post su Facebook per bullizzare chi, fermato in una caserma o in un commissariato, denuncia di non essere stato trattato come la Costituzione impone. E sono molti, soprattutto giovanissimi. C’è solo infatti un terzo oltraggio che da oggi potrebbe riservare il caso Cucchi. Il silenzio del loquacissimo palazzo della politica. L’afasia e l’inerzia di chi, cinicamente, continua a pensare che “il geometra Cucchi” sia stato e sia solo un danno collaterale.

Sorgente: Processo Cucchi, il giorno della vergogna | Rep

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